Rassicuriamo subito i tradizionalisti: “l’essere o non essere?” ci sarà. “Ah si – promette Paolo Rossi – farò praticamente solo quello”.
Già perché poi, Shakespeare permettendo, sarà decisamente il “suo” “Amleto”, popolare e funambolico, graffiante e illuminato, quello che porterà in prima nazionale il 2 e 3 luglio al Teatro Romano di Verona, primo titolo in cartellone del Festival Shakespeariano della 73/a Estate Teatrale Veronese (anteprima all’arena TSB- Prati del Talvera a Bolzano il 29 e 30 giugno).
Una versione riveduta e “scorretta” dell’epopea del principe di Danimarca, firmata dallo stesso Rossi con la collaborazione drammaturgica di Roberto Cavosi e le musiche dei Virtuosi del Carso, dove però i personaggi principali ci sono tutti, in presenza o solo evocati: il principe ossessionato dalla vendetta, sua madre sposata all’usurpatore, il ciambellano Polonio e Ofelia, la cui disperazione non lascia scampo (nel cast Renato Avallone, Laura Bussani, Caterina Gabanella, Marco Ripoldi, Chiara Tomei). Coproduzione Teatro Stabile di Bolzano, Teatro Stabile del Veneto ed Estate Teatrale Veronese con Teatro Miela – Bonawentura di Trieste, lo spettacolo è frutto della persona esperienza di Rossi durante il lockdown.
“Proprio come Shakespeare – racconta all’ANSA – nel rispetto delle norme di sicurezza, ho usato tutti gli stratagemmi possibili per andare in scena. Anche in giro, in strada, nei cortili con uno stand up Shakespeare e tanto Otello.
Un’esperienza che mi ha molto colpito. Tra gente che non è habituè delle sale, ho riscoperto il teatro popolare, il più danneggiato dalla pandemia. Quello che chiamano di serie B, per intenderci, ammesso che in Italia esista un campionato di serie A”. Da lì l’idea di affrontare in modo diverso il ruolo teatrale per eccellenza, quello che ogni attore sogna e teme. “In realtà – dice Rossi – Amleto è una di quelle storie che nessuno conosce sul serio. Mi sono detto: vediamo se si riesce ad andare a casa almeno cercando di capire cos’è quell’essere o non essere. È una sfida a me stesso, ma soprattutto al sistema – prosegue – Oggi il problema è recitare non ‘al’ pubblico, ma ‘con’ il pubblico.
Riportare il teatro a essere un rito collettivo, un allegro processo, una riunione di condominio. Anche una rissa, volendo, ma sempre un’arena”.
Primo atto, dunque, sfondare la quarta parete, un po’ come “osò” alla fine degli anni Sessanta il suo Maestro Dario Fo. “Anche se lui non credeva che si potesse fare anche con testi ‘seri’. Per me – prosegue – l’importante è che accada qualcosa, che si assista all’atto creativo. Il nostro primo compito oggi è portare conforto, in senso laico. Se poi riusciamo a infilarci anche qualche domanda, meglio. Un altro problema post pandemia è che, tra sovvenzioni e ristori, ci siamo dimenticati che chi ci mantiene è il pubblico. Per me sono loro che contano. Certo, se arriva la regina Elisabetta e mi vuole dare dei soldi me li prendo. Ma se il pubblico una sera ha solo tot soldi, io gli chiedo un po’ meno”.
Di Shakespeare Rossi in passato ha già affrontato in maniera ‘canonica’ La tempesta. Ma mai Amleto, sfida per eccellenza per tutti i grandi, da Ermete Zacconi a Vittorio Gassman, da Laurence Olivier a Kenneth Branagh. “Li ho visti tutti in video – commenta – Oltre a Carmelo Bene, quello che mi piace di più è il Richard Burton Off Broadway del 1964. Fu accolto da critiche severissime perché parlava con accento gallese. Ma questo mi ha dato l’idea per il mio Amleto: lo farò tutto in inglese, lingua che non conosco per niente. Chi lo ha visto in prova – ride – dice che potrei farlo ovunque, perché si capisce tutto. Tranne che in Inghilterra. Ma se mi gira posso farlo anche in italiano.
Lo dico sempre ai critici: non venite alla prima che se poi scrivete, una settimana dopo il pubblico trova un altro spettacolo – ride ancora – Dentro ho buttato tutto quello che mi veniva per libera associazione con l’opera. La gente deve capire quello che dici e per me la cosa più bella non è quando ti dicono ‘bravo’, ma ‘grazie’. È un altro brivido”. Ma chi è oggi Amleto? “Può essere chiunque per la sua ambiguità. Come l’Inno alla gioia di Beethoven – riflette – tutti i regimi, da una parte o dall’altra, se ne sono appropriati. Un po’ come oggi con i temi del Covid: capisco i tempi incerti, ma si può dire sul serio che Casa di bambola è legato alla pandemia perché sta chiusa in casa?”.
Daniela Giammusso, ANSA