Il rapper: «L’impegno in musica non paga e della trap ho capito che devo usare il linguaggio»
La musica di De André, il teatro canzone di Gaber, le battaglie civili di Amnesty. Se unire i puntini non è complicato, che a farlo sia un rapper è meno prevedibile. Willie Peyote (pseudonimo di Guglielmo Bruno), torinese classe 1985, uno che con le rime alterna impegno e ironia tagliente, è tra gli artisti della nuova generazione chiamati dalla Fondazione De André a rileggere i classici nell’album «Faber Nostrum» che esce oggi («Ho attualizzato “Il bombarolo”: è il figlio di un imprenditore fallito e suicida, uno deluso dal populismo»); sabato sarà ospite di Milano per Gaber («Mi sono ispirato a lui più che ad altri»); ha da poco vinto il Premio Amnesty per le canzoni che trattano di diritti umani con «Salvagente», collaborazione con Roy Paci sul tema migranti: «Sono onorato da questa attenzione. Qualche anno fa avrei detto che a tutto questo mi mancava il Tenco, ma adesso non ci tengo più, è diventato troppo pop».Citiamo dalla bio di Instagram: «Dire rapper fa subito bimbominkia e dire cantautore fa subito festa dell’Unità. Non voglio essere il Jovanotti anni 90 di oggi, sono la sua versione cattiva e acida. Cerco di fare musica provocatoria in un mondo di buoni sentimenti e di troll che puntano a dare fastidio a prescindere». Il suo ultimo album «Sindrome di Tôret» e di riflesso quello registrato dal vivo «Ostensione della sindrome» indagano sulla comunicazione avvelenata dei nostri giorni: «Tutto è polarizzato. Mi spaventa sin da quando sono bambino. Mia mamma era Testimone di Geova. Pensavano di avere la verità in tasca. Come nella politica oggi. Non si discute più nel merito. Il revenge porn lo propone Boldrini? E allora la maggioranza lo boccia. Però mi spaventano anche quelli che hanno ragione come l’immunologo Roberto Burioni: è sbagliato distruggere gli ignoranti sui social».In «Metti che domani» cita proprio Gaber: «Libertà è partecipazione/ Ma anche il maestro vedesse in che situazione siamo adesso cambierebbe posizione». «Se tutti parlano tanto per dire la loro non è vera partecipazione. Di Gaber condivido l’approccio non giudicante. Solo su un tema prendo posizione diretta: l’antifascismo è la linea di confine». L’impegno in musica è in via di estinzione. «Non paga. Nel pubblico ho gente che vota Lega e mi dice di lasciare stare la politica. Cosa non capiscono?». Willie è equidistante da trap e indie. Rapper, ma libero dalle vuote rime droga-soldi-moda dei trapper. Cantautore, ma capace di alzare la testa dal proprio ombelico che incatena gli indie. «L’indie ormai è un meme. Non mi interessa finire negli stadi a cantare “La musica non c’è” come Coez. Della trap ho capito che devo usare il linguaggio, altrimenti faccio la fine della sinistra italiana con 5Stelle e Lega, ma con temi più edificanti. Posso capire la rivalsa sociale dei Rolex mostrati da Sfera al Primo Maggio, dove forse la Cgil non doveva invitarlo, ma quando i gioielli li compri con i soldi di papà, vedi la Dark Polo Gang, vuol dire che non conti nulla».Originale anche nella scelta dei suoni. Willie collabora con una band che suona strumenti veri. «Papà era in un gruppo hard rock e anche io ho iniziato come bassista punk rock». Il suo mondo incrocia spesso il teatro e nei suoi progetti ospita spesso degli stand up comedian: «Se uno con un microfono riesce a tenerti attento per un’ora e mezza vuol dire che ha qualcosa da dire. Però non voglio essere considerato un intellettuale. Oramai gli intellettuali fanno parte di una coalizione e fanno gli opinionisti da Fazio. La libertà di pensiero è poter cambiare idea».
Andrea Laffranchi, corriere.it