La terza stagione si concentra molto sui social media, sull’interazione costante tra l’uomo e la Rete, soprattutto attraverso lo smartphone
Disturbante, inquietante, ansiogena: la terza stagione di Black Mirror, disponibile da qualche giorno su Netflix, non ha tradito le attese. La serie che racconta il potere distorto dei media e della tecnologia ha fatto di nuovo centro, dopo le due prime stagioni andate in onda qualche anno fa su Channel 4 e che erano subito diventate un cult per gli appassionati. Secondo alcuni è la versione britannica di “Ai confini della realtà”, ma Black Mirror è addirittura molto di più. Scritta dal geniale Charlie Brooker, la serie dipinge una realtà a tinte fosche, condizionata e dominata dal potere subdolo e pericoloso dei mezzi di comunicazione. La terza stagione, poi, si concentra molto sui social media, sull’interazione costante tra l’uomo e la Rete, soprattutto attraverso lo smartphone.
Nel primo episodio, per esempio, viene raccontata una società in cui tutto, dal lavoro al quartiere in cui si vive, dipende dai “like” ottenuti su una sorta di Instagram: più si è vicini alla media di cinque stelline, più è facile realizzare sogni e aspirazioni, comprare la casa più bella, frequentare le persone giuste. E se, malauguratamente, la media dovesse scendere per un motivo qualsiasi, la società ideale (ma ipocrita) fatta di sorrisoni, abiti pastello e finta cordialità, si trasforma in un incubo senza fine, con la protagonista che diventa un paria, un rifiuto della società, un soggetto da cui stare alla larga.
Brooker, come di consueto, porta agli estremi le possibili devianze della società tecnologica, riuscendo in ogni episodio a trasmettere un’ansia incredibile allo spettatore. Black Mirror è una serie assai apocalittica per quanto concerne l’influenza che la tecnologia e i media hanno sulle nostre vite, ma il rischio è che diventi soprattutto una serie profetica: così come Orwell con 1984, anche Brooker con le sue storie inquietanti sembra riuscire a guardare lontano, oltre il presente, e a profetizzare un futuro fosco, evoluto solo in apparenza e invece intriso di minacce. Non è una semplice serie di “fantascienza”, visto che va a toccare temi importanti anche oggi: dalla protezione della privacy in rete agli hater che lanciano campagne pericolosamente denigratorie sui social network contro questo o quel personaggio, passando per gli utilizzi nefasti che i governi potrebbero fare delle nuove tecnologie, le implicazioni psicologiche della realtà virtuale, un aldilà tecnologico dopo la morte, fino ad arrivare persino a odiose devianze sessuali punite proprio grazie al Web.
Il risultato è un affresco malato e soprattutto futuribile. Visto i progressi arrembanti della tecnologia e del ruolo che il web e i social media hanno giorno dopo giorno nella nostra vita quotidiana, non ce la sentiamo di escludere che tra pochi anni non ci troveremo davvero a giudicare l’altro dai like sui social (e in parte già succede) o che sotterfugi tecnologici non verrano utilizzati per condizionare le opinioni che abbiamo gli uni degli altri, innescando persino guerre sanguinose fondate sulle bugie (anche questo è già successo, peraltro).
Ecco perché Black Mirror non va semplicemente considerata una serie di fantasia. È molto più di questo: è un monito, una geniale e distopica profezia su cosa potrebbe succedere nel volgere di pochi anni. Non c’è moralismo o bacchettonismo snob anti-tecnologico. Il progresso è necessario e può essere più che positivo per la vita di tutti noi; l’importante, però, è stabilire dei confini, capire fin dove è lecito spingersi, sapersi fermare prima di farsi travolgere da un futuro che diventa presente in tempi brevissimi e che, senza un minimo di controllo, rischia di travolgerci, sconvolgersi, disumanizzarci. Black Mirror ha implicazioni culturali, sociologiche e persino politiche tali da innescare un lungo e interessante dibattito. A patto, però, che non si utilizzi una geniale serie televisiva per buttare il bambino con l’acqua sporca e trasformare il progresso tecnologico nell’uomo nero da scacciare dalle nostre vite.
Il Fatto Quotidiano