«Sharp Objects» su Sky Atlantic e «Maniac» su Netflix convincono con protagoniste fuori dagli schemi
«Donne/in mezzo alla via/donne allo sbando senza compagnia/ …. /Negli occhi hanno gli aeroplani/Per volare ad alta quota/Dove si respira l’aria/E la vita non è vuota». In onda da pochi giorni, «Sharp Objects» su Sky Atlantic e «Maniac» su Netflix fanno pensare alla canzone di Zucchero. Perché mettono al centro personalità comuni e vere ma fin qui ben poco raccontate da cinema e tv; donne fragili al limite del patologico eppure determinate e forti e toste nel profondo, la cui vera patologia è nell’essere delle ribelli e nel essere come gli altri le vorrebbero. Camille e Annie in questo molto si assomigliano: personalità offese e autodistruttive, danneggiate da eventi che appartengono al passato e da cui non riescono a liberarsi. Ed è attorno al loro tentativo di elaborarlo tuffandosi nella melma di un presente non consolatorio, ma oscuro e inquietante quasi di più del prima, che ruotano le loro storie. E di conseguenza le due serie. Appassionanti. Anche perché il dramma è risolto in chiave di genere, crime e (vaga) sci-fi, che impone una visione da consumare fino all’ultimo respiro. «Sharp Objects» è, se vogliamo, prodotto più maturo: innanzitutto c’è l’imprinting della produzione Hbo e poi è l’adattamento di un acclamato romanzo scritto da Gillian Flynn, già apprezzata a suo tempo per «Gone Girl – L’amore bugiardo». La Camille, interpretata da una Amy Adams in stato di grazia, bella in modo mai banale e pacatamente intensa, fa la giornalista, ma ha problemi d’alcol e di autolesionismo (gli sharp objects sono gli oggetti appuntiti con cui quando il dolore è fuori controllo si tagliuzza). Brava ma in fase discendente, il direttore le impone di indagare sulla morte di due adolescenti in una sonnolenta cittadina dell’estremo nulla americano. Proprio quella da cui anni prima Camille è fuggita. Ogni strada e ogni persona che vede oggi ha in sovrapposizione a immagini di ieri: che non è idilliaco e prevede una sorella morta, una madre che l’ha sempre respinta (e le rinfaccia di non essere morta al posto dall’altra), una nuova sorella minore dalla doppia natura (mite in casa, ribelle fuori). Camille è una “principessa” (la sua è famiglia benestante in un paese di poveracci) con il sentire dell’emarginata. Ritornare “a casa” non potrà non farla soffrire e ricorrere ancora a quegli aghi e lamette delle cui cicatrici è piena la sua pelle (metafora facile ma bella). Pare in procinto di rompersi a ogni svolta la nostra eroina, e invece. La ricerca dell’omicida è ricerca del tempo perduto. Alla regia il canadese Jean Marc Vallée («Dallas Buyers Club») tratteggia e approfondisce con mano sicura il mondo piccolo piccolo della provincia ma soprattutto quello femminile, come per altro aveva già fatto in «Big Little Lies», serie crime che ha non pochi punti in contatto con questa, a partire proprio dai misteri che si annidano nell’animo delle protagoniste. Anche Annie in «Maniac» porta il peso di un lutto: la morte della sorella, al suo fianco in un incidente d’auto. Stavano litigando, le ultime parole dette erano cose terribili. Depressa e ossessionata, bipolare e tossicodipendente da una strana pasticca a forma di A, accetta di entrare in un programma di ricerca farmaceutica che proprio quelle A (ma anche le B e le C) sta testando. In un futuro imminentissimo, tra colpi di scena dell’assurdo, scienziati bislacchi e megacomputer psicotici e innamorati, trova una specie di anima gemella in un paranoico aspirante suicida (Jonah Hill) il cui cervello si sintonizza inesorabilmente con il suo creando incredulità. Malgrado le droghe e la disperazione, però ha ben chiaro ciò che vuole. Occhi sgranati e tristi, senza trucco e dimessa, è una sorprendente Emma Stone («La La Land») che veste di panni di Annie, un ruolo che – grazie ai sogni indotti dalle droghe – le fa cambiare più volte passo: la gioia per un’attrice. Anche in questo caso uno scrittore/sceneggiatore ha messo mano allo script, Patrick Somerville («The Leftover», «The Bridge»), a partire però da una serie norvegese. Alla regia invece Cary Joji Fukunaga («True Detective», «Beasts of No Nation»), appena incoronato regista del prossimo 007. Insomma anche qui una donna fuori dagli schemi, che vola fragile e sola, pare rompersi e invece – sorpresa – respira libera. C’è da dire che questo ritratto di donne dall’animo torturato e oscuro, apparentemente sull’orlo del baratro esistenziale ma ben decise a sopravvivere (quanto vere!), è recente, ma già con più di un precedente. È la contemporaneità di programmazione di queste due titoli che fa da cartina di tornasole. Appartiene a questa genia infelice ma testarda Robin, la detective protagonista di «Top of The Lake» (Sky Atlantic), serie australiana, quintessenza del femminile a puntate: regia e sceneggiatura di Jane Campion, protagonista Elizabeth Moss, femminili i casi su cui indaga, femminili gli universi in cui ci si muove (una comunità new age a bordo lago guidata dalla guru Holly Hunter nella prima stagione, il gineceo di un bordello asiatico nella seconda). Vittima di violenza in gioventù, in «China Girl», da noi ancora inedita, si scoprirà che è madre di una bimba subito abbandonata, da cui sensi di colpa, senso di inadeguatezza, rabbia sotterranea (e il contrasto con la madre adottiva e lesbica, la superwoman Kidman). Poi ci sono le marveliane con superpoteri Jessica Jones, riottosa, solitaria, alcolista e bastevolmente autolesionista, e Tandy Bowen, metà oscura malgrado la scintillante “bionditudine” di «Cloack & Dagger»: entrambe più che borderline, la linea tra normalità ed esclusione l’hanno ampiamente trascorsa. Anche loro trascinate in basso da quel guardare sempre indietro. Anche loro anelano a liberarsene, Vorrà pur dire qualcosa se persino il mondo delle supereroine da fumetto è stato infiltrato queste fragili/toste “mi salvo da me”. Il passato è una terra straniera, ma divenire cittadini del presente si può. Basta volerlo (almeno un po’).
Adriana Mormiroli, La Stampa