(Elena Stancanelli, prostate Repubblica) ALBERT Espinosa ha 41 anni ed è autore di uno dei più grandi successi letterari e televisivi di questi anni. Braccialetti rossi , nato come un piccolo saggio sull’essere felici nonostante tutto (ed. Salani), è diventato prima una serie tv in Catalogna ( Polseres vermelles ) e poi un format venduto in tutto il mondo (in Italia prodotta da Palomar). In marzo alla Fiera di Bologna, e adesso al festival di Giffoni gli attori che la interpretano sono stati accolti come una boy band. I nostri eroi sono degenti di un reparto di pediatria oncologica, sotto chemioterapia, amputati, malatissimi. Chiedo all’autore un aiuto per comprendere questo successo e la straordinaria empatia che i suoi personaggi suscitano nei ragazzi.
Quando è uscito Braccialetti rossi, lei ha iniziato a ricevere molte lettere dei suo lettori. Che età avevano in media? Erano più uomini o donne?
“Ancora oggi ricevo quasi ottomila mail al giorno di gente che ha letto i miei libri o ha visto la serie. Quattromila arrivano dall’Italia. Ragazzi e ragazze in numero uguale”.
Che cosa amano in particolare nel suo libro? Le risposte alla sofferenza? La forza dell’amicizia, la solidarietà tra ragazzi?
“Amano soprattutto l’ida di poter trasformare una perdita in un beneficio. Che è quello che e successo a me, e che racconto. Nei dieci anni passati in ospedale, in cui ho perso una gamba, un polmone e mezzo fegato, ho capito che in realtà avevo guadagnato un moncone, ho capito che si può vivere con la metà di ciò che si ha. Il pezzo di fegato che mi hanno lasciato ha la forma di una stella e così mi diverto a dire di avere uno sceriffo, dentro”.
Capita che i suoi lettori le raccontino a loro volta le loro storie? C’è qualche storia in particolare che l’ha colpita?
“Capita, perché sanno che le leggo e gli rispondo. E perché sentono che i miei libri hanno cambiato la loro vita. E così mi ricompensano con le loro storie. Mi ha colpito molto la storia di una ragazza. Mi ha scritto che le stavano asportando una parte di fegato e voleva organizzare una festa di addio al suo fegato e invitarmi per quell’occasione. Aggiunse che ci sarebbe stato molto alcol, visto che poi non avrebbe potuto più berne. Sprizzava di felicità genuina. Andai a quella festa e fu meravigliosa come quella di commiato alla mia gamba. Io, la mia gamba l’ho seppellita: sono uno dei pochi a poter dire di avere letteralmente un piede nella fossa. E sono anche molto fortunato: non potrò mai più alzarmi col piede sinistro!”.
C’è differenza di accoglienza tra un Paese l’altro?
“No, non direi. Italia, Spagna, Argentina, Cile… Quasi venti paesi hanno la stessa passione per i miei libri e la relativa serie. E questo mi rende felice perché significa che non si tratta soltanto della storia mia e dei miei amici. I miei libri sono un microcosmo pieno di tenerezza, e sono serviti anche a cambiare l’idea dei bambini affetti da tumore. Adesso in molti ospedali i ragazzi dicono: i miei eroi non portano un mantello, ma braccialetti rossi”.
Dunque il successo italiano non è speciale?
“Credo che la versione italiana sia l’adattamento migliore. La mia religione sono le brave persone e non ho dubbi del fatto che la versione italiana, per quanto riguarda gli attori, la regia e la produzione, sia stata composta da persone molto brave e speciali. E il pubblico è davvero molto affettuoso. Credo che l’Italia sia il paese con la più alta concentrazione di amore per metro quadro”.
A parte la sua biografia, quali sono i libri che l’hanno accompagnata nella scrittura?
“Le direi quasi tutti i libri di Patricia Highsmith e Stephen King. Mi sforzo affinché i miei libri abbiano l’energia di questi due maestri, in modo da leggerli di un fiato”.
E Spielberg ha comprato i diritti per farne una serie in America…
“L’ha già girata, si chiama Red Band Society ed è stata trasmessa lo scorso ottobre dalla Fox. Un sogno diventato realtà. Tra pochi mesi arriverà la versione tedesca, russa e israeliana”.
Crede che l’empatia che i ragazzi provano verso i suoi personaggi abbia anche a che fare con l’angoscia da prestazione del nostro tempo, l’incubo della perfezione fisica e la bellezza che nelle corsie del suo ospedale è sostituito dalla solidarietà?
“Può essere. Uno dei temi della serie è: accettare gli errori. Ho sempre creduto che gli errori siano successi fuori contesto. Di qui “ama il tuo caos”, e caos può essere anche perdere una gamba”.
Crede che il modo serio ma leggero che lei usa per parlare della malattia e della morte faccia sentire i ragazzi finalmente emancipati dal mondo di bugie ed eufemismi che gli adulti preparano per loro?
“Credo che con i bambini e agli adolescenti si debba sempre partire dalla verità. Bisogna accettare le loro decisioni e capire che posseggono un’energia irripetibile. Cercare di domare questa loro energia è un errore. Credo che la scuola dovrebbe avere più tempo per argomenti come l’amore, il sesso, la morte, il sentimento, la musica. Ci vorrebbe un’istruzione più adeguata ai problemi reali. Questo cambierebbe tutto. Il denaro, il successo, la bellezza non sono obiettivi. Il vero obiettivo è imparare a morire per imparare a vivere”.
Le capita di andare a incontrare ragazzi negli ospedali, o nelle scuole? Incontra spesso i suoi lettori?
“Sì, vado ogni settimana in ospedale a visitare bambini malati e fare un giro di autografi. Il piacere massimo di uno scrittore è poter parlare con i lettori dell’universo che lui stesso ha creato”.
Crede che la malattia, per la sua enorme potenza simbolica, abbia prodotto una corrente letteraria vera e propria, oppure sente che il suo lavoro, profondamente legato a un’esperienza personale, sia molto diverso da quello, per esempio, di John Green?
“Ultimamente sono uscite molte opere simili, però io ho cominciato a dedicarmi a questi temi dal 1998. All’inizio fu un’opera teatrale, poi un film, il libro, la serie… È la mia vita, e raccontarla è parte di una promessa fatta in ospedale”.