(di Tiziano Rapanà) Ed io parlo di una serie televisiva seria. Mica di uno sceneggiato infinito tristemente somigliante alle soap operas statunitensi. In quel di Monteverde vecchio in Roma, una telecamera indugia tra i tavolini del bar Dolci desideri e scova le parole di due avventori speciali: Carlo Verdone e Fulvio Abbate. Questa è la trama, un rigo appena per non farsi mangiare dal mostro della paludi che taluni chiamano “narrativa”. E, invece, ci si deve abbandonare al flusso delle frasi apparentemente senza un nesso, ad un detto così per dire, “così mi ricordavo” e “quello che fine ha fatto?”. Parole realmente in libertà per un mood emotivo che non si ridurrà mai a sinottico. Così, in media res, senza presentazioni e “buongiorno e benvenuti al consueto appuntamento”. Si parla in totale apertura con la curiosità incredibilmente accesa. Resta sempre il sogno, l’utopia, di vedere Carlo Verdone alla batteria degli Electric Light Orchestra. Naturalmente, per lui, il pezzo più soddisfacente. E, (tra i cavalli di battaglia) per un batterista, mi sovviene soltanto Don’t bring me down. Non ditemi che volete la trama, i personaggi e la classica impalcatura. E la solita prima, seconda, terza puntata ad libitum. Queste cretinate lasciamole all’aspirante narratario, naturalmente privo di curiosità. Colui che guarda le cose in base al genere e smania per conoscere la graduatoria dei film più visti e libri più letti. Chiedo una serie che non sia in serie, ma indipendenza artistica e ispirazione, lontana da pericolose osmosi visive di presunta novità cinematografiche e televisive.