Quando Massimo Romeo Piparo, direttore artistico del teatro Sistina di Roma, annuncia il ritorno di Rugantino, un lungo Ooooooooh! di sorpresa e gioia si leva da giornalisti e abbonati riuniti per conoscere la nuova stagione del «tempio» del musical.
Quando poi presenta l’interprete della celebre commedia musicale di Garinei e Giovannini, la più amata fra le amatissime della loro gloriosa carriera, scatta l’applauso entusiasta. Perché a 73 anni suonati, e a quaranta esatti dal debutto nella maschera romana per eccellenza, a gorgheggiare «Roma nun fa’ la stupida stasera» sarà inaspettatamente – ancora lui. Enrico Montesano.
Un titolo che è leggenda, un trionfo da annali teatrali. Ma quattro decenni in più non sono un po’ tantini?
«Perché mai? A me il 1978 sembra ieri. E poi Eduardo non ha continuato a fare Natale in casa Cupiello fino ad 80 anni? E Ferruccio Soleri non è Arlecchino a più di 80? Le maschere non hanno età. Sono eterne».
Ma confrontarsi con il se stesso di quarant’anni fa non la spaventa nemmeno un po’?
«Ai confronti impegnativi sono abituato. Per Rugantino ho dovuto vedermela col ricordo di Manfredi. Per Il marchese del Grillo con quello di Sordi. Questo è un classico, non ha a che fare con l’anagrafe».
Come sarà allora, rispetto a quello di allora, il suo nuovo bullo e sbruffone trasteverino?
«Certo diverso. Oggi sono più maturo: lo vivrò con una sensibilità più sottile, con molta esperienza in più. Col tempo il testo si è sedimentato dentro di me: ne conosco anche le virgole. Non lo reciterò. Lo vivrò».
Nel frattempo ha visto nello stesso ruolo i suoi eredi, Valerio Mastandrea ed Enrico Brignano?
«Per carità! La sera della mia prima, quarant’anni fa, Pietro Garinei mi rivelò: Guarda che in sesta fila c’è Manfredi. Figurarsi: con Roma nun fa’ la stupida stasera Nino era diventato un mito; Rugantino l’aveva portato fino a Broadway. Avrei voluto morire. Non sono tipo da creare scompensi cardiaci a nessuno, io».
Quale fu l’emozione del ’78? E quale sarà quella del 20 dicembre 2018, data del gran ritorno?
«Allora recitavo quasi in trance. Così mi appoggiavo ad Aldo Fabrizi, che nei panni del boia Mastro Titta, era la mia roccia. E poi c’era Bice Valori, in scena mia sorella Eusebia, che dietro le quinte mi rincuorava: Su, su, forza!. Lo spettacolo era un trionfo di risate. E dopo che Rugantino era salito alla ghigliottina pur di dimostrarsi uomo, un mare di lacrime. I bambini venivano in camerino per assicurarsi che fossi ancora vivo. Spero che le emozioni rimangano le stesse. Di sicuro, stavolta, dovrò essere io, a rincuorare gli altri».
Spaccone ma generoso, spavaldo e in fondo tenero, Rugantino è ancora oggi un simbolo della romanità?
«Più che mai. Basti dire che nacque nel 500 per sbeffeggiare l’arroganza dei soldati francesi. Una pernacchia contro la sbruffoneria del potere. E non funzionerebbe anche oggi, con uno come monsieur Macron? Dopo che è stato dal Papa, gli direbbe: Speramo che t’abbia tirato un po’ le orecchie».
E come commenterebbe lo stato in cui oggi versa la capitale? Cosa direbbe al sindaco Raggi?
«Più che Roma capitale la chiamerebbe ca-pitale. Nel senso che l’hanno ridotta ad essere il posto dove tutti vengono a fare i loro bisogni. Ma già ai tempi di Augusto aveva un milione di abitanti; era già multiculturale e multirazziale. Basterebbe che chi viene qui la rispettasse. Quanto alla Raggi, Anche se c’hai le orecchie a sventola le direbbe – nun sta a senti’ chi te critica. I problemi a Roma ce stanno da quarant’anni. Ne possono basta’ soltanto due per risolverli tutti?».
Dopo le recite romane di Rugantino riprenderà anche la tournèe de Il conte Tacchia. Avrà il tempo per tornare a fare il giurato al Tale e quale show?
«Se Conti mi chiama, di corsa! Capirai: fare il giurato è una pacchia. Stai lì seduto e ti pagano per guardare gli altri che lavorano. Cosa chiedere di più?».
Paolo Scotti, Ilgiornale.it