«LA GRANDE BELLEZZA» INTEGRALE SORRENTINO: «COSÌ DIVENTA ESTENUANTE COME IL RACCONTO DELLA VITA»

«LA GRANDE BELLEZZA» INTEGRALE  SORRENTINO: «COSÌ DIVENTA ESTENUANTE COME IL RACCONTO DELLA VITA»

Il regista: «Aggiungo al film 30 minuti, per una versione più realistica». Il film torna nelle sale per tre giorni, con scene nuove

di Paolo Mereghetti

sorrentinoLa pratica non è certo nuova. L’avevano già messa in atto, per citare solo qualche nome, Spielberg (per E.T.), Ridley Scott (per Blade Runner), Lucas (per Star Wars): riprendere un proprio film e integrarlo con nuove scene. Ma per Paolo Sorrentino e questa «versione integrale» diLa grande bellezza si tratta di qualcosa di diverso: non un director’s cut, piuttosto un first cut. «Quando è venuta fuori l’idea di riproporre La grande bellezza nella sua versione originaria di tre ore, ho pensato a una frase che Buster Keaton teneva appesa nel suo camerino: “Perché essere difficili quando con un piccolo sforzo si può essere impossibili?”. Uno degli obiettivi del film era esibire il racconto estenuante della vita. In questo senso, tre ore aiutano. Ma sono state recuperate anche scene ironiche e divagazioni all’interno di un film che è di per sé una lunga divagazione. Le nostre biografie sono un lungo flusso di digressioni. Dunque, questa è la mia versione ideale del film. Perché è più realistica».

Lunga 173 minuti rispetto ai 142 della versione 2013, presentata in anteprima a Parlare di cinema a Castiglioncello dove Sorrentino è stato ospite ieri sera, La grande bellezza integrale esce al cinema per tre giorni, il 27, il 28 e il 29 giugno, per sottoporsi di nuovo al giudizio degli spettatori. Con una bella sorpresa: non solo la lunghezza non affatica, ma restituisce al meglio il personaggio del protagonista, un po’ spaesato e un po’ compiaciuto, ospite di una città di cui vorrebbe cogliere il segreto che gli sfugge costantemente.
«Jep ha bisogno delle feste e degli amici per disfarsi di sé, per dimenticarsi, e rinviare all’intensità dell’alba romana il noioso e inevitabile appuntamento con se stessi. Una noia mitigata dalla forza sublime di questa città, che percorre sempre a piedi. Così dovrebbe essere Roma, un luogo da indagare con la lentezza della passeggiata. Solo in questo modo Jep scorge in questa città come un lungo reticolo invisibile di mensoline sulle quali prova a poggiare, con la sfrontatezza del poeta dilettante, un’esile voce di grazia e di armonia. Chissà se ci è riuscito!».

Mi sembra di capire che non rimpiange molto la Napoli delle sue origini.
«In parte no, perché Roma e Napoli sono simili: due gigantesche località di vacanza, dove puoi vivere alla giornata, rimandare decisioni, elaborare fumosi propositi per un settembre che non arriva mai. Questo settembre per sempre mancato, però, è sfibrante. Come sosteneva Moravia, qui si tenta di far passare per senso dell’eternità una certa atonia morale. E aggiungeva che Roma, a differenza di altre capitali, non sembra mai investita da una missione. È triste constatare che quelle parole sono molto attuali».
Tra le scene reintegrate, c’è l’intervista a un anziano regista, interpretato da Giulio Brogi, dove si dice che il cinema è «un modo di sopravvivere di fronte alle delusioni di ogni giorno».
«Il cinema può fare anche molto di più. Arvo Pärt intuì la forza della sua musica minimalista sacra ascoltando in un negozio un brano gregoriano senza armonia, senza metro, senza timbro né orchestrazione, insomma senza tutto. Io vedo l’esistenza degli individui esattamente così, priva di armonia, timbro e orchestrazione. Il cinema può risarcire. Può orchestrare le biografie. Può dare timbro e metro. Può scovare, tra gli interstizi, i fili nascosti che portano alla luce la bellezza della nostra disarmonia. In questo senso, La grande bellezza non è affatto, come pensano alcuni, un “j’accuse”. È esattamente l’opposto: è un tenero riconoscimento dell’incanto sepolto sotto la vacuità, la disarmonia e la volgarità di certe figure che popolano Roma e l’Italia».

Tra le tante scene nuove — l’arrivo di una mongolfiera, la caccia alla puzzola, l’avventura di Jep con un semaforo — c’è una versione più lunga dell’incontro notturno con Fanny Ardant.
«Al silenzio un po’ sospeso della versione corta, ho aggiunto un dialogo che è un omaggio a La signora della porta accanto. E naturalmente a Truffaut. Forse il regista che, più di tutti, sapeva creare la meravigliosa illusione, con i suoi film, di ricompensare la fatica e l’approssimazione dell’esistere».

E del cinema italiano di oggi che cosa pensa?
«Trovo avvilente il mantra stantio e masochista di chi, a ogni piè sospinto, ricorda che non esistono più Visconti e De Sica. Tra l’altro, non penso che sia del tutto vero. Forse c’è solo una coltre nostrana di pigrizia intellettuale e pregiudizio che impedisce di vedere che, in Italia, oggi, al di là dei premi internazionali che il nostro cinema ormai raccoglie in modo sistematico, ci sono delle voci molto potenti. All’estero, dove almeno il pregiudizio è assente, se ne sono accorti. Garrone, Crialese, Frammartino, Gianfranco Rosi, Bellocchio e Martone fanno un lavoro straordinario. E abbiamo anche Salvatores, Costanzo, Tornatore, Moretti e Virzì. Sono i primi nomi che mi vengono in mente, sicuramente ne dimentico altri e me ne scuso».

Negli ultimi tempi ha lavorato solo a «The Young Pope»…
«Quasi due anni e sono un po’ stanco. Andrò in vacanza per tre mesi, come si faceva da bambini. E aspetto che ricominci la scuola a settembre».

Saranno dieci episodi che si vedranno in autunno su Sky. Che rapporto ha con la televisione?
«Non sono uno spettatore bulimico di serie. Bertolucci mi ha suggerito di vedere “True Detective”, e io ho obbedito. È un progetto favoloso, che stravolge il genere. Poi ho visto le due meravigliose serie di “Fargo”. La buona televisione offre questa folgorante opportunità di prolungare il rapporto con la forza delle immagini cinematografiche e, allo stesso tempo, utilizzare un’ampiezza che è propria del romanzo e che il cinema spesso è costretto a sacrificare. Però, in televisione, la migliore sceneggiatura possibile rimane quella di una partita di calcio. Seguo molto anche le partite delle serie inferiori o dei dilettanti. Sono commoventi tutti quegli errori, ma come diceva il grande Carmelo Bene: “Sbagliando s’insegna”».

Corriere della sera

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