Si chiama “malifesto” l’ultimo album di Malika Ayane, reduce da Sanremo dove ha portato “Ti piaci così”. Questo nuovo lavoro è un punto d’incontro di “Naif” e “Domino”, i suoi ultimi progetti, ma con una visione completamente nuova, immersa sempre in un presente che la cantante sa universalizzare.
A un certo punto di “malifesto”, Malika Ayane dice “Mentre vivo” che è praticamente un manifesto del “malifesto”, ultimo album della cantante. Col tempo Ayane ci ha sempre giocato, lo ha sempre esplicitato nelle sue canzoni, lo ha sempre usato con sapienza, declinandolo in base ai diversi momenti della vita in cui si trovava. È vero che il tempo sottintende tutto ciò che facciamo, leggiamo, ascoltiamo, ma non tutti
sono in grado di plasmarlo con dovizia e Malika Ayane sa come si fa, sa scegliere le canzoni e sa metterci mano per cucirsele addosso. In questo caso il tempo analizzato è quello presente, quello che alcuni dicono non esista, perché appena lo nominiamo è già diventato passato, per questo la copertina, con il volto della cantante in movimento, rende bene l’idea: eppure esiste un presente esteso che malifesto riproduce anche a livello musicale, perché che Malika Ayane riesca a prendere il presente e universalizzarlo forse lo abbiamo già scritto, ma ogni tanto è bene ribadirlo.
Finita l’esperienza sanremese è venuto, quindi, il momento dell’album, arrivato dopo il successo di “Naif” e l’accoglienza più tiepida di “Domino” e di questi è un incontro, come racconta la cantante a Fanpage. C’è un modo diverso di scrivere, un parco autori cambiato completamente e che include, tra gli altri, anche Colapesce Dimartino e Leo Pari oltre a Pacifico, collaboratore e amico di sempre, e una ricerca musicale che la caratterizza sempre. Provate ad ascoltare gli album della cantante e vi renderete sempre conto che c’è un gusto della ricerca continuo, qualcosa che ne caratterizza il percorso anche quando ci si muove in maniera diversamente come questa volta. È il gusto del presente, appunto, del piegare i suoni al proprio essere contemporaneo.
Per descriverlo, però, cediamo a una cosa che solitamente non si fa, ma che questa volta è quasi imprescindibile per chiarire quello che è, ovvero citare il comunicato stampa nel punto in cui si parla del suono, perché è giusto che chi ascolta quest’album abbia ben presente l’enorme lavoro anche sui dettagli: “Il suono è principalmente composto da batterie strette registrate con pochissimi microfoni, filtrate nei simulatori di nastri e Vinile e Drum Machine come la Linn o la CR78 che creano il tappeto ritmico. Il basso Hofner è stato utilizzato apposta per creare un disco ‘bassocentrico’. Pochissime chitarre elettriche, mentre viene dato più spazio a strumenti acustici a corda come la chitarra classica, l’ukulele, la chitarra acustica e l’AutoHarp. Per i tasti la scelta è caduta su pianoforte verticale, Clavi, Rhodes e synth come Juno 60, Jupiter, il tutto abbracciato da tappeti di Mellotron e Archi”. Malifesto è l’album da ascoltare in queste settimane che ci portano alla primavera inoltrata, ma tanto la musica di Malika Ayane è senza tempo, va oltre il presente, quindi la si può ascoltare sempre.
In “A Mani nude” a un certo punto dici “Mentre vivo”, che presa da sola mi pare l’espressione che meglio riassuma quest’album. A proposito del presente che celebri…
Esattamente, si tratta di questo, mentre vivo succede tutto. Sto leggendo la Trilogia della pianura di Kent Haruf e a un certo punto ero al punto in cui si racconta di una ragazza incinta che nel frattempo aveva fatto mille cose, e Haruf fa una descrizione minuziosa di tutto quello che le era capitato nell’arco dell’ultimo anno da sola e mi ci sono ritrovata. Mentre vivi non ti puoi difendere da nulla e forse non ha neanche senso difendersi: siamo noi, le nostre azioni, la nostra etica.
Naif era un album temporale, Domino spaziale, “malifesto” cos’è?
È il cartesiano, il figlio perfetto di quei due dischi, mi sono resa conto che si può analizzare e vivere contemporaneamente, senza essere troppo trascinati dalla corrente ma senza essere neanche troppo fermi a guardare, ad analizzare. Forse questa pausa forzata dalla vita, forse il fatto di lavorare in Italia con persone che amano vedere il mondo e nutrirsi di quello che succede fuori, ma che poi sono ben consapevoli delle proprie radici, tutto questo è stato fondamentale perché completassimo questo diagramma cartesiano.
Di Naif ci trovo tutto il discorso temporale che portavi avanti lì. Estrapolo dei versi: “E se il tempo passa quanto conta tanto non sarebbe mai abbastanza” (Mezzanotte), “Tutto esiste solo finché dura” (A mani nude), “Non c’è tempo da sprecare” (Come sarà), che sebbene scritti da autori vari sono sempre tuoi, che co-scrivi sempre, no?
La cosa interessante è che queste che hai scelto sono tutte frasi mie. Una cosa che ho notato è che le frasi del malifesto vengono fuori con prepotenza e c’è molto del tempo, forse perché questa esperienza di immobilità ha reso il tempo qualcosa di molle, dilatato, di imprendibile, per cui proprio il presente vivibile, vissuto e di cui si può dire qualcosa, ha assunto un valore esponenziale che quasi non so esprimerti a parole. La sensazione è che ogni piccolo episodio di gioia o dolore è diventata di una forza enorme e questo è stato possibile solo grazie alla mancanza di esistenza del tempo, per cui nel momento in cui è stato ridottissimo è diventata una mancanza centrale.
Nella nota stampa dici che in Telefonami hai cambiato alcuni versi per renderli più vicini alla tua sensibilità. Ci provo, hai pluralizzato “Imparato che siamo diversi, assodato che siamo complessi”?
No, no, quello è Gino (Pacifico, ndr). È arrivato un testo che secondo me rendeva già chiaramente l’idea, ma siccome io ho questa cosa da vecchia zia, però, per cui quando si comincia a parlare di social, blocchi telefonici etc mi trovo un po’ così, perché non è il presente mio anche se è il presente. In alcune cose non mi riconoscevo, come non mi riconoscevo in una certa passività femminile, mentre “Telefonami” è una canzone sul tormento reciproco, ci sono storie legate a una certa nostalgia, per cui a turno quando uno è sereno, l’altro entra a gamba tesa e come mi era stata presentata originariamente il concetto era lo stesso però c’era troppa passività femminile e così ci ho messo del mio. È stato divertente metterci mano, abbiamo mantenuto la prima metà della prima strofa e poi lì ricomincia il gioco del Frankenstein e sarebbe divertente fare un gioco per capire chi ha messo cosa.
In che senso scrivi che è un lavoro che si rifà molto al mondo francofono di Francia e Belgio?
Dopo i due lavori berlinesi che erano sulla libertà (per tagliarla con l’accetta), ho scelto la Francia perché c’è un modo di approcciarsi alla malinconia decisamente diverso. Lì la malinconia non è considerata uno stato d’animo pesante, ma è uno stato, qualcosa che si può portare con spocchia e diventa una cosa sexy: hanno un modo di vivere la nebbia, l’imbrutimento, i ratti che mi piaceva e mi affascinava. Le ultime volte che sono stata a Parigi ho affittato un piccolo appartamento e in due giorni ero amica di tutti, quindi ero la principessa della Rive Gauche e mi è sembrato come di essere mancata da casa da una vita. Per questo mi sono detta che era il momento di scavare l’emotività in questo modo sfacciato, come fanno loro. Poi in termini di suoni, che il mio spirito guida fosse Serge Gainsbourg lo sappiamo da tempo, ma penso che soprattutto la scuola belga più recente abbia ridato al ritmo, a quel modo di essere giovani e arroganti, un modo di essere cool e avere ritmo senza però dover essere dance: penso ai Balthazar, per esempio.
Il fatto che i primi tre pezzi dell’album partano direttamente con la tua voce e senza strumentale è casuale? In più notavo che “Senza arrossire”, pezzo che chiude l’album è “a schema libero”, senza le gabbie della struttura della canzone pop.
Per “Senza arrossire” hanno provato a convincermi di aggiustarla. Quando ho fatto sentire il brano alla mia etichetta insistevano nel dirmi che bisognava ristrutturarlo perché fosse più facilmente memorizzabile, ma la mia regola è che non esistono più regole. Così come gli intro, se non puoi fare una cosa come Alicia Keys, perché mettere un giro a vuoto per dire che sta cominciando una canzone, meglio che arrivi e basta.
Leggevo che hai scartato un pezzo di Colapesce Dimartino che amavi perché non era nelle tue corde vocali (e scherzavi a proposito di chi dice che canti anche l’elenco telefonico), ce lo racconti?
“Le volpi”, sì, è un pezzo stupendo che spero che qualcuno adotti ora che i nostri amatissimi autori di successo sono anche diventati cantanti famosi: è un brano straordinario, era perfetto, però la tonalità non sono riuscita a incastrarla, dovrei farne un duetto, era o troppo bassa o troppo acuta e avrei rovinato una canzone meravigliosa, quindi si accettano candidati, perché pur non essendo mia la tengo stretta, va trattata con la massima cura.
In tempesta cantavi “Libertà è un concetto semplice”. Tu che non hai avuto alcun problema a parlare in altre interviste di due cose non andate bene, “Domino” e l’esperienza a “X Factor”, qual è la libertà che hai imparato a prenderti?
Bisogna arrivare a riconoscersi per quello che si è e non si è, e io sono sempre stata una persona che si dà completamente, anche esageratamente. Ricordo che il chitarrista che suonava con me, il Brando, mi diceva sempre che dovevo smetterla di mostrare io il fianco, perché in quel modo mi mettevo a disposizione di qualunque atteggiamento scorretto. Mi piace prendere dalla vita quello che la vita mi dà e mi piace darmi completamente a quello che la vita chiede e mi può offrire: la libertà è anche a questo punto della vita decidere entro quali limiti permettere questa cosa. Insomma, non ho problemi a dire che X Factor non ha funzionato, perché i social li odio, litigare non mi piace, mi piace la musica e forse sono stata l’ultima delle ingenue a pensare di andare in tv e fare la rivoluzione. Se questa cosa deve diventare un pretesto per fare di me simbolo di qualcos’altro, però, non te lo permetto. Avevo letto una cosa che diceva più o meno che non bisogna trattare gli altri come vorremmo essere trattati, ma trattarli come loro vorrebbero essere trattati, soprattutto se alla base c’è eleganza e onesta. Ecco, l’onestà è una delle cose più vicine alla libertà, quindi sogno ancora un mondo in cui ci si mette tutti a disposizione degli altri con pulizia.
Francesco Raiola, Music.fanpage.it