Le stime di Nielsen per la raccolta pubblicitaria del 2019 hanno mostrato come gli investimenti in advertising nel digitale, a quota 3,34 miliardi di euro e in crescita dell’8,3% sul 2018, abbiano ormai praticamente raggiunto quelli sul mezzo televisivo, scesi a 3,6 mld (-5,3%), esattamente un miliardo in meno rispetto ai 4,6 miliardi del 2010.
Qualcuno, allora, già ipotizza un calo ormai strutturale della televisione, e un imminente sorpasso da parte dei nuovi mezzi che hanno nello smartphone e nel mobile il loro ambiente di riferimento.
Ma in realtà gli studi dei centri media smorzano, almeno in parte, questi entusiasmi.
Innanzitutto, va ricordato che quelle di Nielsen sono stime, e che, per esempio, dei 3,34 miliardi con cui si pesa il comparto digital ben 2,86 mld sono attribuiti da Nielsen agli over the top, che tuttavia non hanno mai rilasciato alcun dato ufficiale. Secondo Media Italia, per dire, il digital in Italia non vale 3,34 miliardi, ma 2,8 mld, tutto compreso.
In secondo luogo va sottolineato che mentre il mezzo televisivo gioca la sua partita su un parco di circa 1.100-1.200 clienti investitori pubblicitari, il digital, invece, pesca su un bacino di decine di migliaia di clienti, un mercato in gran parte non contendibile dalla tv, e che negli anni passati pianificava pubblicità soprattutto sulle Pagine Gialle, sulla stampa e le radio locali.
Quindi, come mostrano le analisi elaborate da GroupM, se si abbandona il perimetro largo (quello di Nielsen che comprende tutte le pmi/small medium business) e ci si concentra invece sul perimetro più ristretto dei grandi e medi investitori pubblicitari, «il mezzo televisivo attira ancora oltre il 50% degli investimenti, mentre il digital, secondo noi, arriva al 27%. E questo», spiega Roberto Binaghi, presidente e a.d. di Mindshare (centro media di GroupM), «ci dice che in Italia il mercato è ancora molto radicato sulla tv. Ma nei prossimi anni ci sarà sicuramente un ulteriore margine di crescita del digital».
Digital che in passato ha eroso investimenti dalla carta stampata, dalle tv e radio locali, e che, se vuole crescere in un mercato fermo come quello italiano e pure fiaccato dalle vicende del coronavirus, dovrà per forza attaccare la grande tv generalista.
Insomma, per il momento «il mezzo televisivo ha subito una limatura, ma continua a essere di gran lunga il primo mezzo in Italia. Certo», commenta Valentino Cagnetta, amministratore delegato del centro media Media Italia (gruppo Armando Testa), «c’è del digital che comincia a sottrarre investimenti alla tv, ma l’impatto non è devastante. La tv, tuttavia, è in crisi perché ha parecchie barriere all’entrata: ci vogliono molti investimenti per comprare spazi, ci vogliono tanti soldi per produrre gli spot, e, infine, per gli spot ci sono dei limiti di affollamento che invece non esistono su Google, Facebook e in generale sugli over the top. La fruizione del mobile diventa sempre più intensa, oltre tre ore e mezza al giorno, e ormai le persone passano sui device digitali talmente tanto tempo che arrivano molti investimenti pubblicitari nonostante la memorabilità degli annunci, su quegli schermi così piccoli, non abbia nulla a che vedere con quella della tv. Ma tra pochi anni tutte le tv della parte attiva della popolazione saranno connesse, la tv diventerà un mezzo per fruire di contenuti digitali. E il sistema della tv lineare perderà di significato sulle fasce attive della popolazione».
Nel 2011 Mediaset, per esempio, aveva una quota del 63% del mercato pubblicitario televisivo, mentre ha chiuso il 2019 con una quota del 55%. «Ma il gruppo Mediaset», assicura Binaghi, «resta certamente di primo piano. Soprattutto per largo merito della sua concessionaria, poiché la forza di Publitalia garantisce a Mediaset dei risultati importanti. Certo, anche la concessionaria ha capito che deve allargare il suo perimetro, dalla adressable tv alla radio, fino alla esterna».
Pure Cagnetta riconosce le grandi doti di Publitalia, che «quest’anno compie 40 anni. La concessionaria sta facendo un lavoro bellissimo».
Tutti i broadcaster, comunque, si dovranno attrezzare poiché la tv e il digitale diventeranno la stessa cosa entro dieci anni. Con un approccio un po’ diverso nei confronti del device: «Sul tema della memorabilità della comunicazione digitale», afferma Binaghi, «direi che la dimensione più o meno piccola dello schermo dello smartphone non sarà un fattore. E questo almeno per due motivi. Già ora Facebook sta crescendo tantissimo nella raccolta pubblicitaria: ma è una piattaforma completamente mobile e video, eppure i clienti amano questa forma di comunicazione.
In secondo luogo l’abitudine all’intrattenimento, allo sport, all’informazione sul grande schermo del televisore appartiene ai Boomers (nati tra il 1945 e il 1965, ndr), in parte alla Generazione X (nati tra il 1965 e il 1980, ndr), già meno ai Millennials (nati negli anni 80-2000, ndr), quasi niente alla Generazione Z (nati tra fine anni 90 e il 2010, ndr), i giovanissimi che per fruire di un contenuto preferiscono uno schermo magari più piccolo ma personale e privato. La dimensione del video, quindi, almeno secondo me, non avrà un valore prospettico nel successo o meno della comunicazione».
Dalla indagine di ItaliaOggi non risulta che gli over the top attuino politiche particolarmente incentivanti nei confronti dei centri media, per attirare maggiori investimenti pubblicitari con fee alte e premi di vario genere. In realtà gli over the top, per loro natura nuovi e anti-sistema, si pongono in maniera abbastanza neutrale sul mercato.
Al momento, in Italia, circa l’80% degli investimenti verso la tv sono intermediati dai centri media. Invece sul digital, dove, va ricordato, c’è una larga fetta del mercato che non è contendibile (piccoli clienti), il livello di investimento intermediato dai centri media scende a un terzo, un quarto rispetto alla tv.
Claudio Plazzotta, ItaliaOggi