Costretta ad abbandonare il programma di Raidue a causa di un infortunio, l’attrice racconta a VanityFair.it la convalescenza durata quasi 50 giorni, il suo nuovo progetto musicale e il peso dell’essere una «figlia d’arte»: dalla questione Morgan-Bugo («sono dinamiche che coinvolgono personalità narcisiste dagli ego spropositati») al tenero ricordo di Anthony Bourdain, ecco cosa ci ha confidato
Circondata dalle mura della sua casa romana, con la televisione accesa per seguire gli ultimi aggiornamenti sul Coronavirus, Asia Argento risponde al telefono con il piglio di chi ha tante storie da raccontare. È passata una settimana da quando Raidue ha trasmesso la puntata di Pechino Express nella quale è stata costretta al ritiro a causa di un infortunio, eppure di quel 29 ottobre, una giornata afosa nel cuore di Prachuap Khiri Khan, in Thailandia, ricorda ogni dettaglio. «Quando mi faccio male nessuno mi prende sul serio.
È una cosa che mi succedeva anche quando ero piccola, sarà perché quando sei una bambina ti considerano solo se piangi» spiega Asia conservando un po’ della rabbia che l’ha accompagnata quando il medico le ha detto che la rotula del ginocchio sinistro, il pollice sinistro e il tendine dell’indice della mano destra erano compromessi e di continuare il viaggio proprio non se ne parlava.
«Sono una persona a cui non piace lamentarsi ed è per questo che ho continuato ad arrampicarmi sugli alberi e a proseguire la prova senza dire una parola. Poi, quando siamo andate al tavolo per tagliare il junk fruit, ho capito che qualcosa non andava: non riuscivo a poggiare il piede a terra. Una volta finito tutto mi è crollata addosso tutta l’adrenalina e il dolore è stato indicibile. Ho sperato fino all’ultimo insieme al dottore che fosse solo il crociato e che avrei comunque potuto continuare ma, dopo che mi hanno fatto i raggi e mi hanno detto che la gamba era rotta in tre punti, mi è crollato il mondo addosso. Non ci potevo credere». Il primo pensiero è andato a Vera Gemma, la sua compagna di viaggio in quest’avventura: «Mi dispiaceva tantissimo lasciarla sola. Quella sera in ospedale ho avuto un crollo: ho pianto tantissimo, ma più di rabbia. Io il dolore lo gestisco, quella del ginocchio l’ho presa per l’ennesima ingiustizia, la solita iella che mi accompagna». Da qui il ritiro forzato, la gamba che si gonfia, il gesso da rifare prima di tornare in Italia e le punture di eparina sulla pancia per evitare infezioni. La nostra conversazione riparte da qui, con la promessa di non parlare né della condanna di Harvey Weinstein – in una colonna del Fatto Quotidiano Asia ha ammesso di «sentirsi vendicata» – né delle liaisons che l’hanno coinvolta negli ultimi due anni.
Dopo l’infortunio è tornata subito a Roma: come si è sentita?
«Molto avvilita al pensiero di dover stare a letto. L’ortopedico mi ha messo questo tutore gigante dicendomi che sarei dovuta restare stesa per almeno 50 giorni e che non avrei dovuto in nessun modo poggiare il piede a terra. Nella sfortuna, però, sono stata fortunata perché la frattura non si è scomposta: se avessi poggiato o sforzato un po’ di più c’era il rischio di essere operata, i chiodi e 5 mesi a letto».
A quel punto cosa è successo?
«Visto che mi annoiavo tantissimo ed ero molto arrabbiata, un mio amico musicista al quale era successa una cosa simile ha cominciato a mandarmi delle tracce incitandomi a fare musica. Da qui ho iniziato a scrivere i testi, ho allestito un piccolo studio di registrazione accanto al letto e ho realizzato 14 canzoni, 7 in romano e 7 in inglese. Ho trovato il mio stile, lo sfogo che mi faceva passare le giornate in maniera positiva ed è stato allora che il tempo è volato. Se non avessi avuto la musica non so davvero come avrei fatto».
Su Instagram ha scritto «devo dire grazie all’infortunio» perché, se non ci fosse stato, Music from my bed, il suo album, non ci sarebbe mai stato.
«C’è stato uno switch dentro di me e la rabbia si è trasformata improvvisamente in gratitudine. Non è detto che le cose che vogliamo noi siano sempre quelle giuste, soprattutto quando il destino ti porta da tutt’altra parte. L’importante è come superi le prove e se riesci a trovare la maniera per crescere spiritualmente e mentalmente».
Sempre su Instagram ha citato Frida Khalo spiegando di come sia riuscita «a trasformare in arte il dolore e la rabbia» che provava in quel momento.
«Lungi da me paragonarmi a lei ma, lavorando da poco a un documentario su Frida, mi chiedevo come avesse fatto questa donna ad andare avanti. Ho ragionato sull’importanza della forza mentale, che non dico che possa controllare il dolore ma che, senz’altro, può aiutarti a gestirlo nella maniera più opportuna. In questo noi donne siamo avvantaggiate perché abbiamo una soglia del dolore molto più alta rispetto agli uomini. Certo, il rammarico è quello di non essere ancora tornata in forma come prima di partire: il ginocchio mi fa ancora male e, quando mi hanno tolto il gesso, sono scoppiata a piangere sia perché avevo paura di poggiare il piede a terra sia perché vedere questa gambetta striminzita senza più muscoli mi ha fatto una certa impressione».
Ha detto che durante la convalescenza ha avuto pochissime persone vicino: come se lo spiega?
«Un po’ l’ho voluto io, anche se tutte le persone più importanti per me c’erano tutte. Inclusa Vera che, appena tornata in Italia, è venuta a trovarmi: insieme abbiamo scritto delle canzoni e lei, nel mio disco, canta anche».
Durante la gara non c’è andata proprio leggerissima con lei: è sempre stata così competitiva?
«Vorrei tanto risponderle di no, ma sarei una bugiarda. Le sfide le voglio vincere sempre: se vogliamo, il mio testare i miei limiti è il mio limite più grande, ma non ci posso fare niente. Sono fatta così. Voglio arrivare fino in fondo perché mi piace vincere, come penso un po’ a tutti. Sono certa che con la mia caparbietà sarei arrivata alla fine di questo percorso bellissimo».
È vero che, prima di partecipare a Pechino Express, si è sottoposta a un duro allenamento per arrivare fisicamente preparata?
«Mi sono preparata per 5 mesi. Ho passato la scorsa estate a fare nuoto, scalate e crossfit: non ero mai stata così in forma in vita mia».
A Pechino si è presentata come «figlia d’arte»: quanto ha combattuto questa etichetta nella sua vita?
«Dipende sempre da cosa vuoi raggiungere, dai tuoi obiettivi. Non so perché la gente pensa che il cinema sia sinonimo di ricchezza: è vero, mio padre faceva film di genere e aveva successo, ma noi eravamo della media borghesia. Dormivo nella stessa stanza da letto con le mie sorelle, mica in un castello. Ci sono, però, dei figli d’arte che crescono nell’agio e stanno bene così perché non hanno delle ambizioni. Io, invece, la voglia di affermarmi ce l’ho avuta sin da quando ero piccola: la scrittura, il cinema e la musica per me erano una necessità, sentivo l’urgenza di creare, di costruire. Non posso dire che sia stato facile essere la figlia di mio padre e di mia madre, ma sento spesso la diffidenza di chi non conosce né me né la mia carriera. Prima di lavorare con mio padre, ho fatto film con Cristina Comencini e Nanni Moretti, ho vinto il David a 18 anni: le mie soddisfazioni me le sono prese. Poi è normale che in un mondo di haters un figlio d’arte è un facile bersaglio, ma la cosa non mi scalfisce. È come se per la massa, che poi vai a capire chi c’è dietro questa massa anonima, io abbia sempre avuto la vita facile. Va bene, se questo li fa sentire migliori, lo pensassero. Ho sudato tutta la vita per fare quello per cui sono su questa Terra: il mio lavoro e i miei figli».
Suo padre l’ha vista a Pechino Express? Cosa le ha detto?
«In realtà non mi ha detto niente, secondo me neanche lo ha visto. Lui non segue tanto quello che faccio. In questo momento sta lavorando e nelle ultime due settimane non ci siamo sentiti».
A gennaio è arrivata la notizia di un vostro film insieme, Occhiali neri, con lei nel ruolo di protagonista e suo padre dietro la macchina da presa.
«Di questo non posso ancora parlare, però».
Torniamo indietro. Il suo ultimo ruolo fisso in televisione risaliva al 2018: perché, tra le diverse proposte che ha avuto, ha accettato proprio Pechino Express?
«Perché è da sempre un programma che amavo e mi dicevo che sarebbe stato divertente farlo, mi ci vedevo bene. Così, appena me l’hanno chiesto, ho subito detto di sì e pensato di coinvolgere Vera perché ci conosciamo da trent’anni, è un’amica carissima e insieme siamo un po’ una coppia comica, ci facciamo un sacco di risate. Siamo molto diverse, io sono più competitiva, ma lei è coraggiosa e disposta a tutto: per me è come una sorella ed è l’unica compagna a cui ho pensato con cui condividere questa esperienza».
Prima accennava al fatto che avete scritto delle canzoni insieme: non c’è il rischio che, all’ultimo, le cambi il testo a sua insaputa?
«(Ride, ndr). No, perché ormai l’abbiamo registrato, magari a un live. Ma non accadrebbe mai perché la nostra è un’amicizia vera e sincera e non una trovata pubblicitaria: nessuna vuole mettere i piedi sulla testa dell’altra o dire “sono meglio di te”: siamo due amiche alla pari e questo tipo di dinamiche scatta con personalità narcisiste dagli ego spropositati. Non è proprio il nostro caso».
A Pechino Express c’è stato anche un momento per ricordare Anthony Bourdain: ha portato con sé la sua kefiah per tutto il viaggio.
«Mi sono subito accorta che era molto utile per vari motivi, coprirsi per entrare nel tempio, ma anche come cuscino: era diventata la mia copertina di Linus. Anthony era un grandissimo viaggiatore, anche se un viaggio come Pechino non lo ha mai fatto. In compenso, amava tantissimo la Thailandia e ci eravamo ripromessi di andarci insieme un giorno: è per questo che era impossibile non sentirlo vicino. Sapevo che era felice per me in quel momento del viaggio. Mi accompagna sempre e non mi lascia mai».
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