Rupert Everett: «Il nome della rosa, la mia crociata contro la Chiesa»

Rupert Everett: «Il nome della rosa, la mia crociata contro la Chiesa»

L’attore racconta: «È la mia crociata contro la cultura dentro cui sono cresciuto. A 7 anni i miei genitori mi hanno spedito in un austero monastero benedettino. Là commettevo un sacco di peccati: speravo di scongiurare la possibilità che mi arrivasse la vocazione»

«È la mia crociata contro la cultura dentro cui sono cresciuto: a 7 anni i miei genitori mi hanno spedito ad Ampleforth, austero monastero benedettino. E, in generale, contro la Chiesa cattolica che, nel Medioevo, era più terribile dell’Isis e che, tutt’oggi, mi vedrebbe volentieri all’inferno per il solo fatto di essere gay».Così Rupert Everett rivela un aspetto molto personale della sua partecipazione alla serie Il nome della rosa, 4 puntate su Raiuno dal 4 marzo, primo adattamento televisivo del capolavoro di Umberto Eco ambientato nel 1327 proprio in un monastero benedettino.Nella produzione diretta da Giacomo Battiato l’attore britannico, 60 anni a fine maggio, interpreta il personaggio del terribile inquisitore domenicano Bernardo Gui che, dice, preferisce di gran lunga a quello da vero protagonista del francescano “buono” Guglielmo da Baskerville (John Turturro nella serie, Sean Connery nel film del 1986 di Jean-Jacques Annaud), perché «provo piacere a mostrare il lato oscuro di un’istituzione che detesto».Anche se, come Baskerville nella vicenda, Everett condanna l’ipocrisia di una Chiesta troppo attenta alle cose materiali: «Quando passo da Roma, ceno in un ristorante molto frequentato dal clero. Preti e seminaristi ordinano menu da cinque portate: mangiano, bevono, spendono, spandono. Farebbero meglio a seguire l’esempio di Gesù, donare tutto in beneficenza e vivere in povertà».Non è stupito dallo scandalo degli abusi sessuali, né dalla descrizione che il libro-inchiesta Sodoma dà del Vaticano come della più popolosa comunità omosessuale al mondo: «Non ho dubbi che lo sia, con orge e prostituzione annesse». Non è convinto neanche della svolta pauperistica e moralizzatrice di Papa Francesco. «Prima vorrei sapere che cosa ha combinato da giovane in Argentina, all’epoca dei desaparecidos. Non mio fido di lui: fa tanti bei proclami e poi li disattende. Mi sbaglierò ma, secondo me, è un uomo di marketing. Quasi preferivo il precedente (Ratzinger, ndr). Al tempo lo detestavo per il suo conservatorismo. Ma almeno era autentico. È un po’ quello che provo nei confronti del presidente degli Stati Uniti: ora che c’è Trump rimpiango Bush. Immagino che voi italiani proviate la stessa nostalgia per Berlusconi, adesso che governa Salvini».Nei suoi anni in monastero, racconta Rupert Everett, «commettevo un sacco di peccati: speravo di scongiurare la possibilità che mi arrivasse la vocazione. Desiderare di essere una ragazza, per esempio. E travestirmi come tale. Durante i weekend mi imbucavo nei camerini del teatro, indossavo gonne, cappelli, foulard, poi andavo sugli spalti dello stadio dove i miei compagni giocavano a rugby: mi fingevo una loro spettatrice. Quando i monaci l’hanno scoperto mi hanno dato la caccia, letteralmente, finché non ho reso tutti i costumi presi in prestito».Dopo quell’episodio fu allontanato: «Ma ero io a volermene andare per iscrivermi a un’accademia di recitazione a Londra». La sua stellare carriera di attore è stata fortemente danneggiata dalla decisione di fare coming out come omosessuale: è a causa di questo, per esempio, che non è stato preso in considerazione come James Bond. Ma non si pente: «Mi sentivo molto legato al pubblico e non volevo mentire, l’onestà era importante».

Nina Verdelli, Vanity Fair

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