Socrate, si tramanda, aveva atteggiamenti scandalosi per la società del tempo in cui viveva; non era solo il suo modo di vestire e di parlare a turbare: c’era di più. C’era il fatto che lui, un filosofo, quindi uno che avrebbe dovuto essere esempio di virtù ed eccellenza per tutti, se ne andasse a spasso per il mercato a conversare con chiunque di cose che non erano filosofiche, confondendo i piani del quotidiano e quelli del pensiero, trasmettendo poi questa confusione ai ragazzi suoi allievi. Tra questi ragazzi, nonostante il moralismo dei sofisti che lo condannavano, ce n’era però uno che ci avrebbe spiegato, divenendo il più grande pensatore della storia, perché vera filosofia era proprio quella di Socrate a spasso per il mercato.
È in questo senso che penso che l’operazione di Tommaso Ariemma, nel suo fortunato e piacevolissimo lavoro La filosofia spiegata con le Serie Tv (Mondadori, 2017), sia un’operazione d’ispirazione “socratica”. Un’operazione che riporta la filosofia alla sua origine più vera. Non siamo al mercato, siamo nell’agorà mediatica delle narrazioni televisive; ma la dinamica è la stessa: la filosofia evade dai suoi perimetri e va a toccare il quotidiano per capire cosa vi sia di filosofico nelle cose della nostra vita.
Scompagina, forse, sentirsi dire che, se ragioni su Lost, scopri e capisci Kant; se guardi attentamente True detective scopri e capisci Parmenide; se ti soffermi su Breaking Bad scopri e capisci Hegel. Eppure, riflettendo, la cosa non è tutto tranne che bislacca. Infatti: già Aristotele (e forse in questo agiva indirettamente l’impronta di Socrate, maestro del suo maestro) spiegava il senso dell’essere alla luce delle rappresentazioni teatrali (La Poetica è uno dei più profondi e vibranti testi di filosofia del canone occidentale); i Romantici guardarono alle fiabe della tradizione popolare per trarvi i più fondamentali motivi dell’esistenza umana; e la Psicanalisi, soprattutto d’orientamento junghiano, avrebbe letto e riletto i miti classici per spiegare le forme della nostra psiche. Siccome le grandi serie tv statunitensi sono fortemente ispirate a queste forme classiche di storytelling (teatro, fiabe, miti), non dobbiamo sorprenderci se, scavando, troviamo – come celate pepite d’oro sotto al terreno – idee filosofiche nascoste sotto le sceneggiature.
Almeno a partire dal celebre The Simpson and Philosophy (siamo nel 2001) di Irwin-Conrad-Skoble, molti pensatori hanno ribaltato l’impianto di opposizione tra filosofia e televisione imposto dal pensiero accademico dominante (Adorno e Popper, per capirci), e hanno cominciato a indagare come fatto filosofico la serialità televisiva. Si potrebbe dire che nasca qui quella corrente di pensiero nota come “popfilosofia” e che, anche in Italia, può annoverare oggi una schiera di brillanti e spericolati paladini. Ariemma aggiunge una cosa nuova allo status quaestionis della popfilosofia: non solo alcuni prodotti televisivi possono essere interpretati attraverso la storia del pensiero occidentale: possono addirittura aiutarci a comprenderlo. Ed ecco il taglio fortemente pedagogico di questo lavoro. Che però sarebbe a mio avviso riduttivo definire “didattico”, solo perché il libro è pensato nella dialettica tra professore e allievi in un liceo. Questo non è un manuale (soltanto) per le scuole. È un libro per spettatori filosofici, di ogni età e cultura.
Uno dei meriti di questo libello è appunto lo stile: la semplicità diretta con cui vengono spiegati concetti di forte complessità. Tale semplicità non implica una superficialità. I lavori precedenti di quest’autore, che si era interessato a temi come la chirurgia estetica, l’arte contemporanea, la corporeità, hanno già questo taglio fortemente comunicativo.
Certamente – come è ovvio – queste 135 pagine non possono in nessuno modo fungere da surrogato per alcuna delle opere dei filosofi che nel libro vengono evocate. L’intenzione dell’autore non è dire che, per conoscere i grandi filosofi, sia sufficiente guardare le serie tv; piuttosto, è il contrario: guardare le serie tv può valere come motivo per dare il via a una conoscenza della filosofia.
Infatti si tratta, soprattutto, di un testo che apre prospettive, non solo perché le comparazioni tra serie e filosofi sono solo alcune tra le tante possibili; ma soprattutto perché – essendo, come dicevo, un libello socratico – i pensieri qui espressi provocano alla curiosità, all’interesse, al domandare.
Tutt’altro che un libro assertivo, perciò. Lo si pensi come un dialogo, aperto. E, infatti, potrebbero aprirsi dibattiti sul piano della discussione teoretica, e parlare delle fiction citati facendo riferimento a filosofi differenti differenti da quelli presi in considerazione, magari pensando immaginarie disputationes; e si potrebbe anche ipotizzare che questo libro apra una strada sul piano pedagogico: perché certamente altre materie, non solo scolastiche, potrebbero avere un simile destino – certo le letterature, le lingue straniere, la storia, l’arte potrebbero spiegarsi con le serie tv.
Forse si è aperta una via, chissà. Di certo la pedagogia contemporanea, specialmente nella dolorosa situazione italiana, ha un bisogno profondo di mescolare entusiasmo e studio, ricerca e passioni; e qui siamo sulla strada giusta per un cammino così.
Ancora due notazioni, al volo. Primo: nel libello non vengono prese in considerazione serie tv italiane. Tutt’altro che una coincidenza: fatte salve forse solo rare eccezioni, in Italia l’arte della sceneggiatura è molto indietro rispetto ai grandi canoni estetici internazionali. Questo ci dice che sì, la filosofia si nasconde nelle serie tv. Ma solo nelle grandi serie tv.
Altra cosa: il discorso svolto da Ariemma è interessante non soltanto per parlare di filosofia, ma anche negli studi di narratologia, proprio laddove lo storytelling si fa veicolo di significati filosofici più profondi. Quindi questo libello piacerà anche agli sceneggiatori, a chi adora le storie, a chi ama leggerne e scriverne.
A chi non piacerà? A molti. Ma non troppi. Non piacerà a quelli che difendono l’istituzione della filosofia nei ranghi accademici, a quelli che pensano lo studio scolastico basato su efficaci imposizioni, a quelli che insegnano senza fantasia o passione, agli amanti dei programmi, a chi crede che la storia del pensiero occidentale non abbia niente a che fare con l’arte televisiva. Molti, appunto, ma non troppi. Gente che non andrebbe mai al mercato insieme a Socrate.
Cesare Calà, Huffington Post