A Bologna esposti cinquanta scatti che raccontano gli “Hamburg Days”. La fotografa, 79 anni, ricorda i primi concerti in Germania quando erano cinque: fu lei a creare il taglio con frangia e caschetto. Poi la morte del primo bassista, Stuart Sutcliffe, nel ’62, cui era legata sentimentalmente: “Non è stato facile, eravamo così giovani”
Quando i Fab Four erano cinque, con Stuart Sutcliffe al basso e Pete Best alla batteria prima che Ringo Starr lo sostituisse, e avevano ancora ciuffo e giubbotto di pelle con il colletto alzato (l’omaggio era, ovviamente, per il loro idolo, Elvis), Liverpool era solo la città che aveva fatto da sfondo al primo incontro tra John, Paul e George (a luglio di sessant’anni fa). Amburgo, invece, era il cuore di una cultura musicale europea che pulsava rock and roll e voleva dimenticare in fretta il dramma della guerra. La città accoglieva come una mamma giovani musicisti che, per pochi soldi, si esibivano nei locali della Reeperbahn: per John e i suoi non fu certo difficile trovare un palco.
Se oggi abbiamo testimonianza di quelle fasi iniziali e importantissime della loro carriera, se possiamo parlare degli “Hamburg Days” dei Beatles, lo si deve tutto a un incontro, quello tra la band e Astrid Kirchherr, 79 anni, all’epoca giovane fotografa, allieva di Reinhart Wolf quando suo allievo era pure Klaus Voormann (illustratore e produttore tedesco con il quale la Kirchherr ebbe una relazione e che disegnerà per i Beatles la copertina di Revolver).
È lei a realizzare il loro primo servizio posato e a consegnarci gli scatti più belli di quei primi anni Sessanta, immagini ufficiali e istantanee di momenti intimi, perché dal primo incontro tra Astrid Kirchherr e la band di Liverpool nascerà un legame irreversibile che li porterà a condividere lavoro, drammi personali, vacanze e feste di compleanno. Tutto questo, oggi, trova il suo spazio a palazzo Fava, a Bologna, dove è stata allestita la mostra (visitabile fino al 9 ottobre) Astrid Kirchherr With The Beatles, organizzata grazie a fondazione Carisbo e Genus Bononiae-Musei nella Città, in collaborazione con la galleria Ono Arte Contemporanea.
La prima volta che Kirchherr vede e ascolta i Beatles è al Kiserkeller ed è Klaus Voormann a portarla lì. Tutto succede in maniera velocissima, per Kirchherr è una sorta di folgorazione, i Beatles, invece, ancora non sanno che lì davanti a loro c’è un’artista che influenzerà non poco il loro stile, il loro aspetto esteriore, e li aprirà alla cultura europea a loro ancora sconosciuta. In questa sorta di scambio reciproco, infatti, se la creatività di Kirchherr sarà nutrita dalla presenza scenica e dalla bravura di un gruppo che nel proprio repertorio aveva ancora più cover che brani inediti, è al suo spiccato senso stilistico che dobbiamo, ad esempio, quello che conosciamo come “look alla Beatles”, frangia e taglio a caschetto.
Anche se chiederle adesso come ci si sente a essere stata fonte di ispirazione per una delle band che ha influenzato di più il modo di fare musica, Astrid Kirchherr quasi fa fatica ad ammetterlo: “Non ho mai pensato che potessi essere orgogliosa di quello che ho fatto, veniva tutto naturalmente, eravamo amici. Successivamente sono stata e tuttora sono orgogliosa di quello che hanno fatto loro”. Eppure un intervento su quei ragazzi vestiti con giacche di pelle e stivali alla texana c’è stato: “Ho iniziato con i capelli di Klaus. Mi piacciono ancora gli uomini con capelli lunghi e aspetto androgino. A Klaus quel taglio è piaciuto perché nascondeva il piccolo difetto delle orecchie un po’ sporgenti”.
“Poi ho provato lo stesso su Stuart – prosegue la fotografa che con Sutcliffe iniziò fin da subito una relazione: i due si sarebbero dovuti sposare, ma poi la morte improvvisa di lui, a soli venti anni, per emorragia celebrale, trasformò quello in uno dei momenti più dolorosi della sua vita – e il risultato è stato fantastico. All’inizio, John prendeva in giro Stu a ogni occasione, ma poi sia lui che Paul mi dissero di volere lo stesso taglio. E George ne fu entusiasta, perché aveva lo stesso difetto alle orecchie. Finirono per amare tutti quel look perché era nuovo e stava benissimo su di loro”.
Dai capelli Astrid Kirchherr passò poi agli abiti, vestendo i Beatles con camicie e completi. Aveva conquistato la loro simpatia e fiducia, al punto che, per il primo servizio con loro, riuscì nell’impresa di buttarli giù dal letto a un’ora insolita per quei ragazzi: “Mi serviva la luce giusta, all’epoca non usavo né flash né luci aggiuntive”. Per lo shooting Kirchherr scelse come set un lunapark: “Sono andata a prenderli con il mio Maggiolino Volkswagen decappottabile. Sono stati molto professionali e hanno preso la cosa seriamente. In quegli anni io parlavo un inglese stentato, mi arrangiavo, con le mani e con i piedi. Hanno avuto pazienza e mi hanno aiutato”. Quel lavoro contribuì ad aumentare la notorietà dei Beatles ad Amburgo, e firmarono un contratto per alcune serate in un club storico della città, il Top Ten. Suonarono lì però il tempo necessario ai proprietari di scoprire che Harrison era ancora minorenne, “ha dovuto lasciare il Paese immediatamente. Io e Klaus l’abbiamo accompagnato in stazione: eravamo lì per aiutarli ogni volta che ne avevano bisogno”.
Nel frattempo Stuart Sutcliffe aveva già deciso di lasciare la band per vivere con Kirchherr e dedicarsi alla sua altra passione, la pittura, mentre Ringo Starr aveva preso possesso della batteria: “Erano amici prima ancora di iniziare a suonare insieme, per lui fu facilissimo diventare uno dei Beatles”. Una volta recuperato anche George Harrison, tornato ad Amburgo da maggiorenne, l’anno successivo, nel 1961, i Beatles iniziarono a esibirsi ogni notte in quella che sarebbe stata la loro definitiva formazione. La morte di Sutcliffe nel 1962, però, non fu una tragedia solo per Astrid Kirchherr: “Si può immaginare che perdere il migliore amico sia qualcosa di estremamente doloroso. Per John fu insostenibile, ricordo che rideva e piangeva allo stesso tempo. Non è stato facile, eravamo così giovani”. Anche Yoko Ono dirà che non passava giorno senza che John parlasse di Stuart. “Quando siamo saliti in soffitta, dove Stu dipingeva – continua Kirchherr – e ho scattato quella serie di foto ai volti di John e George nell’ombra, è stata un’idea di John. Era il suo modo di dire addio al migliore amico”.
Il rapporto di amicizia tra Astrid Kirchherr e i Beatles continua però anche dopo la scomparsa di Sutcliffe. La vacanza alle Canarie, a Tenerife, a fine ’62, è un momento di vita che la fotografa condivide con George e Paul, non con John che preferì invece partire con il manager Brian Epstein. Anche le foto scattate in quella occasione sono diverse, innanzitutto perché sono a colori, una scelta insolita per l’artista famosa per i suoi ritratti in bianco e nero, e poi perché sono istantanee tra amici. La macchina fotografica passa di mano in mano, tant’è che anche Astrid Kirchherr sarà protagonista, questa volta, davanti all’obiettivo. “Paul e George si presero un’insolazione, non erano affatto abituati a stare al sole. Ma uno dei ricordi più divertenti della vacanza me lo ha lasciato George: si era completamente innamorato di una bellissima biondina dell’isola. Provava in tutti i modi a fare colpo su di lei, le raccontava che era un Beatle, che le sue canzoni erano in cima alle classifiche, lei non capiva una parola, come immaginerete non c’è stato alcun happy end”.
L’ultima volta che Kirchherr lavorerà con i Beatles come fotografa ufficiale sarà per raccontarci il dietro le quinte del set di A Hard Day’s Night. È il primo film della band, ma siamo già nel 1964 quindi la scalata al successo internazionale è abbondantemente iniziata. Fu la rivista tedesca Stern a commissionare il servizio, rivista che aveva naturalmente il suo fotografo ufficiale. I Beatles però accettarono di essere seguiti solo a patto che ci fosse anche Astrid: “Ci conoscevamo così bene che si fidavano completamente di me. Lo vedevo dai loro occhi”. Kirchherr quindi vivrà tra Londra e Liverpool per il tempo del servizio. Qualche anno più tardi Harrison proporrà ad Astrid di aprire il suo studio a Londra, ma lei rifiuterà: “All’epoca sentivo di non avere abbastanza esperienza per gestire il mio studio in un Paese straniero. E poi, non volevo lasciare Amburgo”.
La Repubblica