Il ritorno del comico in tv con “Doveè Mario?”: battute, tormentoni e ospiti inattesi
L’auto va nella notte d’autostrada e finire contro il Tir, è un attimo: anche perché il bagagliaio è ricolmo di copie di libri invendute e forse è un destino auspicabile e piuttosto voluto dal conducente, il prof Mario Bambea, intellettuale di sinistra con birignao e erre impossibile, in crisi totale, perduto nei tempi e nel tempo. Che dall’incidente e trauma cranico risorga nei panni di Bizio Capoccetti, comico di quarta fascia ma perfetto per il teatrino romano dove si lanciano gatti morti sul palco, è l’evoluzione migliore possibile. Ed eccolo, il perfetto uomo schizoide del XXI secolo: ha le fattezze di Corrado Guzzanti (da ieri su Sky Atlantic il primo dei quattro episodi, orribilmente pochi, di Dov’è Mario?, ovvero il più che atteso ritorno del nostro uomo). Che in scena un po’ rimane prof, ma più che altro dilaga nella seconda personalità del comicastro dalle battute scorrettissime: mai mettere sotto un romeno in bicicletta, potrebbe essere la tua e così via. Con la vittoria al Festival della comicità di Nepi come traguardo vero mentre la prima personalità via via torna a emergere – c’è verso la fine la scena in cui Bizio il grossolano rimane pressoché ipnotizzato dalla visione notturna di una lezione di Vattimo in tv e non sa perché… L’ultimo impegno guzzantiano, sempre per Sky , era stato Aniene. Qui siamo a un incrocio ideale tra quello e Boris, la serie che tutti rimpiangono ma che nessuno finora aveva ripreso: complice Mattia Torre, autore insieme a Guzzanti, mentre la regia è di Edoardo Gabbriellini. Consiglio, del tutto privo di pretese: mettersi sotto il tavolo per lasciar volare in alto tutte le chiose in arrivo sulla rappresentazione della crisi dell’intellettuale di sinistra, dei ruoli classici, di pensose argomentazioni. E lì, sotto il tavolo, lasciarsi andare alla visione e basta, strapiena di spunti, pazzie vere, incongruenze, gag epocali, badanti romene – Dragomira – che meriterebbero una serie in proprio. Nonché gli ospiti speciali, da Mentana alla Gruber, a un Walter Veltroni finale che è di tale bravura da entrare nel paradosso continuo e ipotizzare che l’attore sia la cosa che gli riesce meglio. E poi arrendersi subito a quello che a occhio ha divertito assai gli autori, ovvero la parte pecoreccia con Bizio e la sua sfrenata voglia di lasciarsi andare. Guzzanti ha detto che hanno badato a non farlo diventare troppo mitico: ci sono riusciti fino a un certo punto. E quindi adesso tocca dividersi in due lati del mondo: da una parte quelli che valuteranno, legittimamente, la portata satirico-socio-politica di tutto quanto (auguri) e diranno che però Guzzanti era meglio una volta etc. Dall’altra quelli che solo con i tormentoni, gag, ricordi di gag (“Io lo so che il mio successo è fimero”) supereranno l’estate e si consoleranno assai. Quasi una cosa da servizio pubblico.