I tanti convinti che Maccio Capatonda sia un genio, avranno una conferma nella scelta del titolo del suo primo libro: Libro. «Alla fine è anche un modo per vendere di più, basta che qualcuno entri in libreria e dica: “Vorrei comprare un Libro”. E questo lo è, non ci sono dubbi». In realtà, non è solo un libro, ma una autobiografia. «L’ho scritto nella massima onestà: è tutto vero, al netto delle cose soprannaturali e certe derive surreali». Che non sono poche e che fanno davvero ridere. Ma gli aneddoti reali non sono da meno. Come le sue fissazioni da bambino, tra cui il dado da cucina: «La scoperta di questo alimento è stata una rivelazione: era come una caramella però pienissima di sapore. Ero uscito di testa, l’avevo sempre con me». Ora, giura, non lo mangia più, «ma quando lo uso per fare il risotto ricordo tutto e mi si staglia un sorriso sul ginocchio destro». Il racconto si concentra sull’infanzia del comico, caratterizzata da un certo rifiuto della realtà: «L’ho sempre vista come qualcosa di noioso, per questo mi sono rifugiato nella fantasia. Penso che la scelta di fare questo lavoro dipenda da qualcosa di comune a molti comici: una visione del mondo un po’ cinica, nichilista che si manifesta con la voglia di prenderlo in giro, di dissacrarlo». Tuttavia, l’idea di diventare un comico non era nei sogni di Marcello Macchia, che Maccio Capatonda lo è diventato solo nel 2004, dopo aver iniziato a dire a caso dei nomi assurdi per i suoi personaggi («Non pensavo che questo me lo sarei portato dietro»).
«Avevo capito però che il cinema poteva essere un rifugio, infatti credevo sarei diventato un regista serio». Rivelatorio, Ritorno al futuro: «Con quel film ho avvertito che esisteva la possibilità di evadere dalla realtà. Lo vedevo anche tre volte al giorno. Ho scritto una lettera a Michael J. Fox, avevo trovato il suo indirizzo su un giornale. Dopo cinque anni è arrivata la sua risposta: sono completamente impazzito. Lui era il mio idolo, il motivo per cui faccio questo lavoro». Altrimenti cosa avrebbe fatto? «Ho delle opzioni: il tassista, perché sono molto bravo con le strade, mi oriento benissimo. Ho il dono innato del tassismo. Oppure il golfista: ho dovuto rinunciare perché in Abruzzo (è cresciuto a Chieti, ndr.) non c’erano campi da golf». La sua voglia costante di evasione, per anni si è scontrata contro un muro invalicabile: la scuola. «Mi sembrava incredibile che una persona potesse essere obbligata ad andare a scuola tutti i giorni. Quando ho finito le superiori ho avuto un momento di estasi, mi sentivo leggero come una piuma: sono stato letteralmente tre ore fermo a casa di mia nonna, in piedi, in corridoio, per il gusto di perdere tempo. La sola gioia che ho trovato nella scuola è stata all’ultimo anno, quando con un mio amico ho iniziato a scrivere un giornaletto comico».
Nel libro — che già dal momento del preorder è andato in vetta alle classifiche di vendita — tante di queste vicende sono documentate con foto. Molto presto, tra le mani di quel bambino in fuga dalla realtà, compare una telecamera. «I miei amici si prestavano a fare da attori, con i più stretti condividevo il senso dell’umorismo. Ma nella vita pensavo di fare il videomaker: mi ero trasferito a Milano e lavoravo in Filmaster. Ero abbastanza lanciato, fino a quando sono stato chiamato per il servizio civile». Alla fine del quale, il suo posto era stato assegnato a un’altra persona. Che però era amica di Carlo Taranto, della Gialappa’s: «Gli ha fatto vedere i video comici che facevo per hobby e mi hanno chiamato. Per me sono stati dei maestri: mi hanno permesso di iniziare a fare questo mestiere come dio comanda. Grazie a loro mi sono reso conto che i miei video non erano un passatempo ma potevano diventare un lavoro». Da lì ad essere considerato da molti «un genio», il passo è stato breve: «Me lo dicono, me lo scrivono. Io cerco solo di andare fuori dagli schemi: sono il mio primo spettatore e non voglio annoiarmi. Sento la grande empatia che provano le persone per me e la zero empatia che io provo per loro, nel senso che loro mi conoscono benissimo ma io non li conosco per niente. Quindi sono sempre diviso tra la voglia di abbracciarli e quella di dire “scusa ma chi sei”».
Non manca l’amore. Un capitolo del libro è intitolato «La Canalis», con cui si è frequentato. Racconta, prendendo in giro il fantomatico contratto di fidanzamento della showgirl con Clooney, il loro primo incontro, circondato da guardie del corpo: «“Devi firmare un contratto se vuoi continuare a interagire con Eli”, mi disse un tizio vestito da Lele Mora… “Qualora venisse rivelata una sola informazione riguardante la vita di Elisabetta Canalis dovrà pagare una penale di sessantasette euro”. Firmai». I riferimenti a fatti o persone non sono puramente casuali e il capitolo si chiude con la fine della loro breve frequentazione: «Mi affacciai alla finestra e la vidi andare via spensierata ma dopo pochi passi inciampò e, cadendo finì all’interno di un settimanale di gossip. Da quel giorno non l’ho più vista, se non dentro il giornale». Cinico quanto basta. «Ma il cinismo è fondamentale, se no diventerei tipo Palo Brosio. Il bene non fa ridere».
Chiara Maffioletti, corriere.it