Jared Leto dei Thirty Seconds to Mars: «Sul set sei un pezzo di un puzzle, la musica è personale»
Zigomi affilati, capelli lunghi neri, il fisico asciutto di chi mangia essenzialmente frutta e verdura. Jared Leto non passa inosservato. L’assistente è in subbuglio: gira la sedia che il frontman dei Thirty Seconds to Mars utilizzerà per l’intervista. Sposta la lampada: «Preferisce il lato sinistro del viso», si giustifica. Che sia un tipo burbero? Non è da tutti presentarsi al Met Ball, a New York, con in mano una copia perfetta della propria testa fatta di cera. In realtà basta poco per rompere il ghiaccio. «Sì, è buono», assicura sorridendo del litro di latte d’avena che si è portato dietro. Si illumina quando parla dell’Italia: «Uno dei Paesi che come band amiamo di più. Ci avete sempre appoggiato, anche quando non eravamo nessuno».Se l’aspetto è a metà tra l’ascetismo di un profeta e trasgressioni da rock, il curriculum rivela un’attività professionale svolta a ritmo frenetico: dal 1998, quando assieme al fratello Shannon, batterista, fondò il gruppo, Leto ha prodotto cinque album e intrapreso diverse tournee mondiali – il 3 luglio sarà a Roma, il 4 a Padova, il 6 a Pistoia e il 7 a Barolo – senza mai abbandonare il cinema, la recitazione, la regia nonché una serie di attività complementari, come il lancio di una piattaforma digitale per la musica e una società di marketing su web e social.Nel 2014 ha vinto l’Oscar come miglior attore non protagonista per il film Dallas Buyers Club. Il ruolo era quello di una donna trans malata di Aids. Sul lavoro adotta una filosofia di immersione totale. Dimagrisce e ingrassa di venti chilogrammi a botta: si trasforma, fisicamente e psicologicamente. Sa diventare dispettoso, dark. Cosa lo spinge a lavorare tanto e in modo così vario? «Deve esserci qualcosa in me che mi obbliga a fare sia musica, sia cinema. Credo sia un bisogno mio, perché certamente non è una vita facile, nel senso che ci sono grossi conflitti di tempo», spiega, aggiungendo che non potrebbe rinunciare né alla prima, né alla seconda attività. «Quando fai un film sei un pezzo del puzzle, con la band invece c’è un legame molto più personale, anche perché sono al fianco di mio fratello».Il contatto con il pubblico, il fatto che «nonostante distrazioni come internet e i social la gente abbia voglia di uscire e di provare esperienze dal vivo, sulla pelle» è «esilarante». La loro reazione è l’aspetto che completa l’atto creativo, che si tratti di musica, di arte, di cinema, di letteratura». L’obiettivo, con i Thirty Seconds, «è continuare a cambiare e sperimentare». Aggiunge: «So che ad alcuni non piacciono le novità, a me sì tantissimo: la sorpresa di un nuovo stile. Come quando i Led Zeppelin hanno usato gli archi». Ammira gruppi come i Cure, i Radiohead, Kanye West che hanno saputo uscire dai ranghi e rompere con le etichette: «Come artisti dobbiamo ricordare che le regole che esistono davvero sono quelle che ci imponiamo. Dobbiamo sentirci liberi di provare tutto, di fallire». Lui ha mai fallito in qualcosa? «Spessissimo. Devo scrivere 10.000 canzoni per trovarne dieci che valgano qualcosa. Fallire è ciò che ti insegna a riuscire mentre il successo ti insegna a fallire. Me lo ripeto sempre».
Paola De Carolis, corriere.it