La regista ritrova Giovanna Mezzogiorno per il nuovo film«Racconto la ricostruzione dell’identità di una donna»
Cristina Comencini parla con quel tono che sembra freddo e invece è pudico. Aveva un’ombra ingombrante, o meglio una figura importante, quella di papà Luigi che è stato anche uno dei padri del cinema italiano. Ora le figure sono due: c’è il primogenito, Carlo Calenda, uno dei leader del Pd. «Ma non dobbiamo mica parlare di questo, vero?». Il tema del suo cinema e dei suoi libri è la commedia umana della vita: la paura e il bisogno d’amare, la libertà delle persone, i rapporti umani che cambiano. Cristina ritrova Giovanna Mezzogiorno quasi quindici anni dopo La bestia nel cuore.Certe atmosfere di quel film tornano in questa nuova avventura, prodotta da Lionello Cerri e Cristiana Mainardi con Rai Cinema, e intitolata In buona compagnia.
Di che cosa parla?
«C’è l’idea della ricostruzione dell’identità di una donna che torna dall’America, figlia di una napoletana e di un ammiraglio Usa nella base militare di Nisida. È un thriller psicologico, un giallo dell’inconscio».
La trama?
«È un racconto che attraversa una suspence, un pericolo, dopo un episodio avvenuto nell’adolescenza della donna che ha causato il suo andare in America. Tornata per il funerale del padre, Giovanna incontra un uomo (l’attore Vincenzo Amato, ndr) che sembra sapere troppe cose di lei. A Napoli si riappropria di una parte di sé che aveva dimenticato».
Perché richiama «La bestia nel cuore», che nel 2006 entrò nella cinquina degli Oscar?
«In entrambi c’è quello che era accaduto in una casa, poi il clima, gli Usa. Qui metto in campo un modo di raccontare più estremo. Intanto ci sono due epoche, fine anni 60 e i 90, che si sovrappongono senza flashback».
Ritrova la Mezzogiorno.
«Ha avuto i bambini, è venuta fuori un’altra forma di femminilità, molto intensa, più dolce e morbida».
Quanto ha messo di lei nella protagonista?
«C’è il pre ’68 vissuto come primo alito di libertà totale, l’idea del risveglio. Quando ero giovane avevo la sensazione che le cose agissero su di me, non sceglievo. Ero tonta, l’immaginazione e la distrazione fanno parte di me. Vivo l’antagonismo tra natura sognatrice e bisogno della brava madre di essere efficiente».
C’è anche qualcosa del suo romanzo «Da soli»…
«Il dolore dell’assenza e la dimensione del tempo. Anche lì si fanno i conti con la solitudine. La conquista della libertà oggi rende inconcepibile che si possa portare un rapporto d’amore oltre la sua fine. Ma trovo che ci sia una facilità di separazione. Sono tradizionale, mi piacciono le cose che durano».
Uno dei suoi figli è l’ex ministro Carlo Calenda. Ha posato sovrappeso, ironicamente in chiave antimachista, in costume da bagno.
«Carlo è coriaceo… È stato deriso sul web? Lui non se ne cura, va avanti».
Lei usa i social?
«No, le cose vieni a saperle comunque».
Ha scritto il film con sua figlia Giulia.
«E con Ilaria Macchia. Giulia, sceneggiatrice a tempo pieno, è più brava di me».
Cosa ha preso da suo padre Luigi?
«L’importanza delle relazioni fra esseri umani. Però in me sono centrali le donne nel rapporto con gli uomini».
Tornando agli Oscar, Lina Wertmüller dice che è difficile che venga riconosciuto il talento delle donne.
«Abbiamo fatto la traversata del deserto in ogni ambito. Stiamo conquistando le cose piano piano, negli Oscar come nei David. A Los Angeles c’è più resistenza».
Lei nelle battaglie femminili è coinvolta in prima persona: a volte non affiora una certa retorica?
«Ci possono essere eccessi, ma non è rabbia, è solo affermare che nel lavoro non entra la sfera sessuale».
Valerio Cappelli, corriere.it