Nel suo ultimo film racconta la vita violenta e il lato umano di chi esce dal carcere. Nella realtà si gode l’equilibrio della maturità con la moglie Francesca Neri e ricorda con noi Er Monnezza: «Per me, una persona di famiglia»
Questa volta non ha resistito. «Mentre scrivevamo ho preferito non pensarci, poi alla fine non ho avuto dubbi: Luigi dovevo farlo io». Claudio Amendola concede il bis da regista dopo La mossa del pinguino. E, per la prima volta, dirige anche se stesso ne Il permesso. 48 ore fuori (al cinema dal 30 marzo), che racconta le storie incrociate di quattro detenuti per due giorni fuori dalla prigione. Rossana e Angelo (Valentina Bellé e Giacomo Ferrara), giovanissimi. Donato (Luca Argentero), trentacinquenne ferito e rabbioso. E il suo Luigi, appunto, 50 anni, una condanna per duplice omicidio e una famiglia che ancora spera di poter salvare. «Sono storie dure, violente, mosse da un sentimento forte. L’amore per un figlio, per una donna, per la vita. O la mancanza di amore. Tutti cercano un abbraccio caldo. Sono ispirate a vicende vere, molto crude. Il carcere nel film non si vede, ma loro se lo portano appresso, come fossero incarcerati nei loro problemi. Ho amato tantissimo tutti i personaggi, li ho fatti miei caricando il lato umano» spiega.
Oltre a dirigere, anche questa volta ha firmato la sceneggiatura.
Ci ho lavorato con Roberto Jannone partendo da un soggetto di Giancarlo De Cataldo, frutto della sua esperienza come giudice di sorveglianza nel carcere di Civitavecchia. Non mi considero un autore, non sono bravo con il foglio bianco. Mi reputo piuttosto un buon correttore di bozze.
Perché ha scelto Luca Argentero nel ruolo più cupo?
Era uno dei pochi in grado di dare quel risultato anche a livello fisico, dopo quattro film insieme ne conosco disciplina e abnegazione. Conoscevo anche la sua voglia di fare un personaggio diametralmente diverso da lui. E sono entusiasta del lavoro di Giacomo Ferrara e Valentina Bellé e degli altri giovani attori. Sul set era bello guardarli, vedevo una voglia di affermarsi, di osare. Grazie a loro ho fatto una bella scoperta.
Ovvero?
Ho visto una generazione di 20-25 anni, ragazzi e ragazze straordinari, veramente bravi. Meritano attenzione e spazio.
Ultimamente è più facile che li trovino all’estero.
Non ci sono opportunità in Italia, è vero, ma molti partono anche perché sono curiosi, hanno voglia di andare fuori e poi magari tornare. Bisognerebbe fare di tutto per accogliere giovani cervelli da altri Paesi e permettere scambi, aperture, creare opportunità. Attirare solo i miliardari per i 100 mila euro di tasse mi pare un po’ poco…
C’è un ritorno del poliziesco, di storie ambientate nelle periferie?
La scorsa stagione ci sono stati Suburra, Non essere cattivo, Jeeg Robot. Abbiamo una lunga storia di film di genere, da quelli belli e seri dei grandi registi ai “poliziotteschi” (polizieschi all’italiana, in voga negli anni ’60 e ’70, ndr) di cui io sono fan. L’importante è non farli per forza perché funzionano. Inflazionare non va bene, è una trappola nella quale cadiamo periodicamente. Lo si è visto con l’overdose di commedie.
Di quei film Tomas Milian, scomparso nei giorni scorsi, è stato un simbolo.
“Per me, una persona di famiglia. Mio padre Ferruccio gli ha prestato la voce, mio zio Mario con Bruno Corbucci, li ha scritti. Er Monnezza è stata la maschera moderna della romanità e a Roma Tomas era legato intimamente. Ma quella Roma di cui aveva nostalgia non esiste più da tempo”.
Non è nel cast di Suburra la serie…
Farò già una serie per Raiuno. Due sarebbero state troppe. E, poi, il samurai nel film di Sollima mi ha già dato grandi soddisfazioni, non mi sembrava giusto rifarlo.
Sta lavorando molto ma ha l’aria di volersela prendere calma. Sbaglio?
È vero, vivo un momento felice. Ho tre figli grandi, 18, 27 e 33 anni, sono nonno. Ho molta vita da vivere e non sarà solo dedicata al lavoro. Il nostro è un mestiere meraviglioso che ti assorbe tanto e quando hai successo vuoi ancora più lavoro e ancora più successo. Per fortuna, arriva un momento in cui scegli di fare solo ciò che ti dà piacere. Non vorrei mai alzarmi la mattina per andare sul set e non essere felice.
Bell’equilibrio, complimenti.
Merito di Francesca (Neri, ndr), che ha saputo portarci fino a questo punto. Ha accettato che il mio ego fosse appagato dal punto di vista professionale, anche rinunciando a qualcosa. Anzi, a molto. Mi ha spalleggiato e mi ha permesso di essere sereno.
Vent’anni in coppia. Non vi piacerebbe girare un altro film insieme?
Per tanti anni ci abbiamo pensato dopo Le mani forti. Ci è dispiaciuto non esserci riusciti. Ci piacerebbe sì, ci divertirebbe, ma non è più una priorità.
A differenza di altri attori, anche suoi coetanei, lei sembra non preoccuparsi dell’aspetto fisico.
Ma è un’altra forma di vanità. Come dice Nanni Moretti, penso di essere uno splendido cinquantaquattrenne. Ed essendo stato figo e magro, campo ancora di rendita. Mi sentirei ridicolo a fare un quarantenne, forse in un flash-back… Ho avuto la fortuna di invecchiare insieme a un personaggio, Giulio Cesaroni. Al cinema sono stato ragazzino, giovane, tipo vissuto. Ora non vedo l’ora di fare il nonno.
di STEFANIA ULIVI, La Repubblica