I due attori scelti per «Domani è un altro giorno», remake di «Truman – Un vero amico è per sempre»mettono in scena la difficoltà maschile nell’esternare i propri sentimenti
Quando qualcuno — i produttori Maurizio e Manuel Tedesco? — ha deciso di rifare il film ispano-argentino Truman – Un vero amico è per sempre ambientandolo in Italia, deve aver pensato per prima cosa a una coppia di attori capaci di reggere il film sulle loro spalle e poi a chi potesse adattare la storia alla nuova ambientazione, romana invece che madrilena. Mentre per la regia devono aver accarezzato un’idea «di servizio», una messa in scena che si mettese al «traino» dei personaggi e dei loro interpreti. Non vuole essere un giudizio di merito sul breve curriculum del regista Simone Spada (devo ricordare che alcuni dei più bei film della storia del cinema sono stati firmati da esordienti?) ma piuttosto una costatazione di fatto: in un cinema come quello italiano, dove il regista sembra destinato a oscillare, schizofrenicamente, tra un’ostentata autorialità e una anonima professionalità, considerare la messa in scena altrettanto importante del cast o della produzione sembra un’utopia. E le conseguenze si vedono. Per esempio in un film come Domani è un altro giorno che di Truman è il remake made in Italy.All’origine c’è la sceneggiatura di Cesc Gay e Tomás Aragay: quando viene a sapere che un amico ha deciso di smettere le cure antitumorali perché convinto che siano inutili, un vecchio compagno d’infanzia che si era costruito famiglia e professione in Canada prende l’aereo e si precipita a casa sua, a Madrid, per cercare di fargli cambiare idea. O almeno stargli vicino qualche giorno. Nell’originale del 2015 (trionfatore ai Goya), i due protagonisti sono interpretati dall’esuberante Ricardo Darín (l’amico malato) e dal più silenzioso Javier Cámara, affiancati dal cane (che dà il titolo al film: Truman) cui il morituro vuole trovare un nuovo padrone.La sceneggiatura di Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo interviene pochissimo sullo script originale (se non sbaglio introduce solo un nuovo personaggio, quello di un’attricetta con la vocazione dell’infermiera) concentrandosi soprattutto nell’adattare la storia ai caratteri dei due attori italiani, Marco Giallini (Giuliano, il malato) e Valerio Mastandrea (Tommaso, l’amico «canadese»). Scelta comprensibilissima perché sono loro l’ossatura del film. Anzi, sono il film stesso, che trova la sua ragion d’essere nella sintonia quasi simbiotica che li lega. Si capisce che certe cose non sono nate solo sul set: certi sguardi, certe esitazioni, persino alcuni scambi di battute svelano una familiarità di lunga data, un’assonanza che non nasce solo dal copione. Tutto si regge sulla loro bravura d’attori, sull’esuberanza di Giallini e sulle esitazioni di Mastandrea, sul profluvio di parole del primo e i calcolati silenzi del secondo, ma se non ci fosse stato anche un’amicizia e una frequentazione vera, probabilmente l’effetto sarebbe stato meno diretto, più recitato.Eppure da sola quella sintonia non basta. Lo capisci nelle scene che dovrebbero illustrare non tanto la paura della morte (che non diventa mai il tema centrale del film, mascherato dietro una specie di scanzonato cinismo) quanto la difficoltà maschile nell’esternare i propri sentimenti. Gli incontri con due amici al ristorante, il primo che finge di non vedere e non sapere, il secondo che supera i risentimenti del passato per esternare il proprio dolore, finiscono per essere messi in scena in maniera solo professionale, senza che la macchina da presa entri davvero in gioco, ferma a osservare e non a farsi tramite tra scena e spettatore. E qualcosa di simile avviene anche nell’incontro col figlio cui Giuliano non ha il coraggio di dire la verità (che peraltro il ragazzo sa già): possibile che l’emozione debba nascere meccanicamente solo dal primissimo piano degli occhi strizzati del padre?Non so fino a che punto tutto questo nasca da una qualche immaturità del regista o dai limiti che gli sono stati imposti. Ma alla fine del film esci con la sensazione di esserti trovato di fronte a qualcosa di non completamente compiuto, a un film con ottimi attori, con una bella sceneggiatura ma senza un’anima palpitante.
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