Fulminacci: «La voglia di pensare ad altro»

Fulminacci: «La voglia di pensare ad altro»

In questo periodo sta sistemando le tante canzoni scritte nell’ultimo anno, dal Festival di Sanremo che lo ha visto protagonista con il brano Santa Marinella al suo secondo album Tante care cose che lo ha riempito di soddisfazioni. Per Filippo Uttinacci, in arte Fulminacci, è un momento di passaggio, di riflessioni, di scrittura e riscrittura, spesso in solitudine. Proprio dalla solitudine nasce Brutte compagnie (Maciste Dischi/Artist First), il suo ultimo singolo in radio dal 17 dicembre che racconta la quotidianità di chi si guarda attorno e immagina, di chi ha sempre qualche pensiero di troppo nella testa ma che nella musica trova una soluzione. Nell’immagine di copertina l’unione di più oggetti che un’intelligenza artificale unisce in base al suo criterio di giustizio estetico. «Rende la musica uguale all’immagine, ognuno può vederci quello che vuole. Nessuno di noi ci vede qualcosa di specifico, come in una canzone. A me sembra una guardia svizzera o un carabiniere». Un ritmo scanzonato su parole che sanno sempre come raccontare in modo semplice i pensieri di un ragazzo di ventiquattro anni che non vede l’ora di tornare a suonare live. Il tour è previsto dal 3 marzo, nei club, con tutto l’ottimismo che serve per credere che si farà. 

Come sta?
«Vivo un periodo di passaggio. Sto cominciando a pensare alla preparazione del tour, sto mettendo a posto le cose che ho scritto, mentre mi dedico alla promozione di questo nuovo brano, curioso di sapere che cosa ne pensa il pubblico, ma anche le persone che mi sono vicine». 

È contento?
«Sì, molto. Ogni volta che esce qualcosa di nuovo vorrei poi fare meglio. Sento subito i difetti e vorrei sistemarli. Ma forse è sano così».

Brutte compagnie. Quando è nata?
«Non eravamo in quarantena, c’era già stata la seconda ondata. Ma era il periodo in cui c’era il coprifuoco e bisognava tornare a casa presto. E quindi io spesso neanche uscivo e sono rimasto spesso di sera da solo. Così mi è venuta in mente una sorta di delirio domestico. Questo brano mi ricorda Canguro, presente nel mio ultimo album. Sono a casa e immagino cose, ho un atteggiamento quasi schizofrenico. È una celebrazione della mia incoerenza e stupidità. E diventa una consolazione. Mi diverto a elencare tutte le cose sbagliate o vere che faccio. Lo stare a casa senza illuminarsi mai con la luce del sole, il non uscire a respirare l’aria di città. In qualche modo ho celebrato la mia tendenza a essere un animale domestico». 

Nella solitudine come sta?
«Non la vivo male. Io, se sto male, sto male sia in compagnia sia da solo. Ma lo stare da solo non porta con sé lo stare male. Anzi, ci sono molti momenti, se fai questo lavoro, in cui è necessario isolarsi, anche se la vita ti fa bene. La solitudine è l’unico modo per farsi venire idee. Certo bisogna vivere esperienze, ma anche autoindursi alla solitudine. Di una cosa sono sicuro, non puoi fare il cantautore se sei triste tutta la vita».

In questo ultimo periodo le esperienze però sono state molte meno. Questa stasi ha influito sulla sua scrittura? 
«Senza dubbio e sta ancora influendo. Tante care cose è nato durante la pandemia ma le canzoni c’erano già e quindi i temi del periodo non sono entrati nell’album. C’era molta voglia di evadere. Questa è la prima canzone che esce tra quelle scritte durante l’emergenza sanitaria. Tant’è che parla della casa, è ambientata dentro casa. Ma la voglia è di pensare ad altro».

Nella solitudine di casa canta che è una musichetta a salvarla. Quale?
La sigla di The Office, serie che ho visto dall’inizio alla fine quando stavo a casa. Mi salvava dalla verità di quello che stava succedendo». 

Parla poi di strane idee che arrivano di notte. Quali sono?
«La tendenza di ogni essere umano di autosabotarsi ogni tanto e di mettere in discussione tutto. Io cerco di essere un supereroe dell’oggettività, ma divento spesso infrequentabile, poco piacevole. Ho sempre voluto raggiungere il massimo dell’obiettività su tutto, ma sui miei difetti non ci sono mai riuscito. E così divento cupo e tenebroso. Decisamente poco simpatico. Ho però capito che è anche bello essere semplice e diretto. Le emozioni sono semplici da descrivere».

Il suo difetto su cui è meno obiettivo?
«Ho l’ansia, molto spesso. Per molte cose. Questo fa di me una persona che nei momenti di tensione è poco rassicurante. Fatico a esserlo perché io stesso mi spavento. E quindi chi viene da me in cerca di rassicurazione… non ottiene molto. Prima mi spavento, poi cerco di rassicurarare. Ma forse a quel punto è tardi». 

Di brutte compagnie ne ha incontrate?
«Io ho cominciato a fare musica in un periodo molto bello, dove c’era grande spazio. E ho conosciuto bravissime persone. Non ho mai incontrato il male, il successo o le cose losche. Non ho persone da cui stare lontano. Forse anche perché sono sempre stato molto protetto dalla mia etichetta, Maciste Dischi, dove ho trovato solo persone che sanno di famiglia».

Ora nella musica c’è meno spazio? 
«No, ancora oggi ce n’è. Ma attorno al 2016 c’è stata una rivoluzione musicale in cui la musica indie è diventata pop. È successo con Fuoricampo dei Thegiornalisti, con Calcutta. È successo qualcosa di importante che ha permesso alle persone giovani di fare. Non c’era più solo il pop radiofonico ma chi come me aveva qualcosa da dire in un modo diverso si è potuto immettere in un’autostrada». 

L’indie esiste ancora? 
«Non più, non c’è più differenza. Posso sperimentare a livello di suono, di immagine, ma non devo per forza avere un’immagine sporca o sbagliata. Né devo fare il video in playback dove faccio il serio o piango». 

Anche durante l’ultimo Festival di Sanremo si è vista questa unione dei generi. 
«L’ultimo Sanremo è stato bellissimo e sono molto contento di averlo condiviso con tanti amici. Quest’anno potrei dire lo stesso. Mi sembra ci sia un modo di selezionare le canzoni e gli artisti che non è mai stato adottato prima. Sul palco con me c’erano le persone che ascolto. Prima non capitava. Faccio i complimenti ad Amadeus». 

Dopo il Festival come è andata? 
«Ho avuto un aumento di pubblico, questo sicuramente. Ma non un’espolosione. È successo tutto in modo organico e naturale e me ne sono accorto anche attraverso i messaggi privati delle persone. Ne sono contento. Come sono contento di non essere stato intrappolato in un unico genere di canzone. Ho portato un brano che mi rappresentasse, sono contento di questo e del risultato. E ho un pubblico bellissimo che mi dà un affetto che continua a soprendermi. Non pensavo che potesse esserci un rapporto così profondo. Ricevo messaggi che a volte mi fanno piangere. Ne sento anche la responsabilità».

Pubblico che non vede l’ora di vederla live. 
«Non vedo l’ora anche io. Il mio è un progetto solista ma sul palco ho una band, siamo coesi, non vedo l’ora quindi di rientrare in modalità tour, furgone, cene, hotel, dialetti italiani che adoro ascoltare e capire. È bello quando improvvisamente entri in autogrill e senti un’altra lingua anche a pochi chilometri di distanza da dove eri prima». 

Non ha paura che non si potrà suonare, visto l’aumento dei contagi?
«I club a oggi sono fattibili e pare non ci siano problemi. Questo tour non è mai stato annullato o rimandato. Certo, le cose cambiano. Ma mi auguro che questa ondata invernale sia gestita diversamente». 

Il Covid lo teme?
«Ora meno. Le prime volte che qualcuno mi diceva di essere positivo urlavo, avevo paura. Ora so che staranno bene, siamo vaccinati. Siamo più abituati, c’è un altro approccio».

Per le feste cosa farà?
«Una cena ridotta di Natale, facendoci i tamponi familiari. E lavorerò. Ho imparato che sei fai questo lavoro non esistono vacanze». 

Chieda qualcosa a Babbo Natale… 
«Che il Covid sparisca, che tutti stiamo bene… E che si possano fare tanti tanti concerti». 

VanityFair.it

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