40 ricette spiegate come a casa: è il tema de La Cucina di Famiglia, il nuovo libro (Einaudi, 18,50 euro) di Antonino Cannavacciuolo: grande professionista, persona vera, senza dubbi il cuoco più amato dagli italiani, come dimostra il successo di ogni programma televisivo che lo vede protagonista. È appena ripartito Masterchef Italia («Come è venuto? Guardatelo tutto, guagliò» risponde al telefono e pare di sentire l’immancabile pacca sulla spalla) ed è uscita l’ultima opera letteraria. Ridendo e scherzando, siamo arrivati a nove libri: tutti impostati sulle ricette di casa, su ingredienti scelti ma reperibili, sul piacere della condivisione in famiglia o tra amici. Il claim del nuovo libro è «Le parole non riempiono. Solo se il piatto è buono si può parlare di filosofia».
Antonino, senza che ne se parli tanto, lei ha cinque stelle Michelin: due a Villa Crespi, una per il bistrot a Torino, un’altra per il bistrot a Novara e l’ultima al Laqua Countryside di Vico Equense. Eppure lei, quando scrive, insiste sulla cucina quasi basica, con ricette classiche. «La cucina di famiglia è quella che tutti abbiamo nel cuore. È fatta di sapori che non possiamo dimenticare. Questo libro nasce proprio per raccontare le ricette della mia storia a Vico Equense ma anche di cuoco di casa negli ultimi lockdown. Così, a fianco del favoloso baccalà fritto di mio padre o della scarola ‘mbuttunata, c’è una zuppa con le alghe kombu che è nata “ripulendo” la nostra dispensa nei mesi in cui non si poteva uscire di casa».
Quindi un libro per tutti, non per aspiranti chef. «Esattamente. Sono 40 ricette corredate di fotografie che illustrano non solo il risultato finale, ma, dove necessario, i vari passaggi della realizzazione, in modo che nulla sia dato per scontato. Non è obbligatorio sapere cosa sia e come si debba fare una julienne di verdure. Senza utilizzare frullatori d’avanguardia o abbattitori. Solo pentole, manualità e ovviamente tanta passione»
Torniamo al Natale: ama ricordare quelli da bambino dove il cibo ha un ruolo quasi magico. «Ma a Vico Equense non è cambiato: il Natale da noi si aspetta tutto l’anno. I preparativi iniziano settimane prima, si contratta per gli acquisti, ci si mette tutti d’accordo su cosa preparare. È una festa che dura un mese, condivisione non solo di cibo. Poi è una gara con l’intero vicinato: tra chi cucina meglio e in maniera più abbondante. Ognuno fa qualcosa: c’è lo zio che si sente il re del baccalà, la zia che fa la pasta fresca. Una cosa bellissima ed emozionante.
Anche nei piatti dei suoi locali stellati, la tradizione ha un ruolo più importante rispetto a quello che si ritrova in molti ristoranti dei colleghi. Come mai? «Io dico che non ci possiamo nascondere dietro la montagna: in Italia, per fortuna, abbiamo una tradizione enorme. Per me rappresenta le fondamenta su cui un cuoco costruisce la casa, a suo gusto e immagine. Ma il cemento armato è questo e “deve“ essere lo stesso per tutti».
Approfondiamo. «La tradizione è ingrediente, quindi non puoi rispettarla senza la ricerca costante della qualità o con prodotti che non ne fanno parte. C’è gente che “scassa“ perché il pollo alla diavola deve essere quello di un tempo e poi scopri che acquista la carne del Nord Europa e il pomodoro del Marocco. Invece di contestare la ricetta moderna ai cuochi, bisogna pensare all’ingrediente».
Come vede, dopo due stagioni molto complicate, lo stato dell’arte ristorativa in Italia? «Mi sembra che siano usciti di scena molti locali “improvvisati” e i migliori stiano lavorando meglio di prima. Si è capito che la ristorazione è un mestiere serio, complicato, non per tutti. Anche perché i clienti sono sempre più preparati, non puoi fare esercizio di stile o lavorare male. Lo hanno capito anche tanti giovani chef, li vedo spingere come facevo io alla loro età quando ci si confrontava con mostri sacri come Marchesi, Vissani, Pierangelini».
Adesso, il mostro sacro è lei, viste le cinque Stelle Michelin. «Ho solo 46 anni, eh…Seriamente, sono circondato da un grande team, composto in gran parte da giovani o ex-giovani che hanno cominciato diciottenni a Villa Crespi e ora guidano una brigata o un locale, hanno responsabilità insomma. Mi piace trovare ragazzi ambiziosi, che vogliono crescere senza fretta e sono felicissimo quando diventano bravi. Per me è fondamentale coinvolgerli in tutte le mie attività, compresa la preparazione dell’ultimo libro».
I tre resort Laqua sono partiti fortissimo. «L’hotellerie richiede una concentrazione ancora maggiore rispetto alla ristorazione: bisogna essere attenti 24 su 24, invece che su due soli servizi. Ma consente di creare un rapporto intenso con l’ospite, a partire da una buona colazione, volendo lunga come fosse un pranzo. Poi, sono tre posti obiettivamente molto curati, belli per la location, gestiti da professionisti. Sono contento che siano piaciuti, penso che l’hotellerie italiana abbia bisogno di boutique hotel come il mio, per recuperare il gap su questo fronte, mediamente inferiore a quello ristorativo».
Dai l’impressione di mettere sempre il cliente al centro del sistema. A parole lo fanno tutti, nella realtà meno.
«Puoi essere quello che vuoi, puoi raccontare ogni storia ma senza il cliente non esisti. Se nel locale non viene nessuno, la filosofia ha valore zero. Poi, sia chiaro, avrai tutte le ragioni del mondo sul cliente poco preparato o rognoso, ma se non torna a sedersi chi perde è il cuoco, il patron».
Cannavacciuolo, ma con tutti gli impegni tra locali sparsi in giro e il piccolo schermo, riesce ancora a cucinare a Villa Crespi? «Scherzi, guagliò? Quando registro a Milano, alle 17 prendo l’auto e “volo” a Orta: appena posso, entro in cucina e cucino come è normale per me. Se non faccio un po’ di casino con la brigata o entro in competizione con i giovani, mi manca qualcosa e più invecchio più mi diverto. Per me cucinare è un hobby, mi considero un appassionato. Lavorare è un’altra cosa».
VanityFair