Alessandro Haber è tornato a vedere lo strano effetto che fa vedere la sua faccia negli occhi degli altri. Stavolta in quelli dei lettori che stanno accogliendo con entusiasmo il suo libro «Volevo essere Marlon Brando (ma soprattutto Gigi Baggini)», scritto con Mirko Capozzoli per Baldini + Castoldi. Francesco De Gregori ha scritto per lui «La valigia dell’attore», una delle canzoni che meglio racconta la storia di chi ha messo la propria vita su un palco. La valigia di Haber è piena di abiti di scena tagliati su misura, che coprono mezzo secolo di cinema e teatro. Nella storia dello spettacolo d’arte varia Haber sfugge a ogni cliché, perché gli schemi non reggono quando si vive per recitare, come ama ricordare. Nell’autobiografia c’è spazio per gli aneddoti che aiutano a ripercorrere la sua strada da Tel Aviv a Verona, passando per Vado in provincia di Bologna, fatta di corse a perdifiato per incontrare Orson Welles, occasioni perse e soddisfazioni che hanno sublimato una carriera che vanta 120 film e oltre 50 interpretazioni a teatro. In questo libro selvaggio c’è spazio per la rivalsa, ma non viene risparmiato nemmeno il fallimento, che è persino accarezzato e protetto dall’autore. Alessandro Haber lo ha scritto per abbracciare chi lo segue e ora si prepara a girare nei teatri italiani con «Morte di un commesso viaggiatore» da febbraio 2022. Dopotutto è questo l’unico incontro a cui tiene, perché «senza pubblico un attore non è niente».
In questo libro ha raccontato la sua vita, tracciando una sorta di bilancio. Qual è il suo più grande rimpianto?
«Il mio più grande rimpianto è non aver lavorato con Vittorio De Sica ne “Il giardino dei Finzi Contini”. Io ero pronto a interpretare la parte di Bruno, il protagonista, ed ero già in contatto con De Sica e lo sceneggiatore del film, Salvatore Laurani. Un giorno ero con lui e all’improvviso squillò il telefono: era la segretaria di Vittorio che mi chiedeva di presentarmi in studio per quella parte. Ero pronto, avevo imparato persino le battute del copione. Ma in quell’occasione De Sica mi disse che preferiva un attore dal volto più delicato per il ruolo di Bruno (Lino Capolicchio, ndr), a me avrebbe invece assegnato un personaggio diverso. Io non avevo voglia di stare dentro a un film guardando fare a un altro ciò che sognavo io, e quindi rifiutai. Il film ha pure vinto l’Oscar e forse la mia vita sarebbe cambiata se avessi accettato. O forse no. In ogni caso resiste ancora oggi il piccolo dolore di non aver condiviso il set con Vittorio De Sica».
E un momento esaltante invece?
«Un incontro che invece è riuscito a cambiarmi la vita è stato quello con Pupi Avati, che ho quasi aggredito nel suo studio a Roma. Quel giorno ero in giro in auto e cercavo parcheggio. Sono riuscito a trovarlo casualmente davanti al suo ufficio. Pupi mi faceva sempre un sacco di complimenti, gli piacevo come attore. Ma non mi aveva mai chiesto di lavorare con lui. Quella mattina mi sono fatto coraggio: ero incazzato perché stavo affrontando un periodo difficile, non si girava molto in quel periodo. Allora ho suonato al citofono e lui mi ha aperto. Ma soprattutto non mi ha mandato a quel paese dopo che gli ho chiesto una parte. Infatti sono uscito dal suo studio con un ruolo in tasca».
Come nasce l’idea di questo libro?
«Io non volevo scrivere questa biografia. Lo consideravo un esercizio troppo autocelebrativo e poi tutto sommato non mi andava di scavare così a fondo nella mia vita, nelle pieghe dei miei conflitti. Non mi sentivo pronto. Poi invece con la pandemia ho avuto modo di ripensarci e ho capito che la mia storia in qualche modo riguardava tutti, perché mi interessava arrivasse ai lettori in maniera sincera e senza vergogna. Questo libro è stato il mio abbraccio con il pubblico».
Come lavora alla creazione di un personaggio?
«Il mio primo approccio con un nuovo ruolo è animalesco e mi lascio guidare dall’istinto. Poi ho bisogno di guardarlo da fuori per metterlo meglio a fuoco. Non seguo delle fasi specifiche, è una specie di metodo “haberiano” che non ha niente a che vedere con la tecnica. Non sopporto questa parola tra l’altro. Non credo alla tecnica: questo lavoro deve essere naturalmente tuo, altrimenti non ti apparterrà mai per davvero. Lo considero un dono. Possiamo migliorare senza dubbio, ma la scintilla o ce l’hai o è meglio farsene una ragione».
Qual è il suo rapporto con il pubblico?
«Un attore senza il pubblico non è niente. Mentre un pianista o un pittore possono sentirsi appagati anche solo contemplando la propria opera d’arte, un attore vive dell’incontro con gli altri. La pandemia per me è stata devastante, visto che la mia vita senza la recitazione è solitudine».
Baggini versus Marlon Brando. Haber si sente entrambi?
«Marlon Brando è uno dei miei miti per il suo carisma e il modo in cui ci ammalia. In ogni inquadratura è capace di rivelare la sua magia. Gigi Baggini invece, il personaggio interpretato per pochi minuti da Ugo Tognazzi in “Io la conoscevo bene”, è un fallito e vive tra gli ultimi. Io non mi sento mai appagato e non mi considero una persona arrivata. Mi concedo solo la soddisfazione di aver regalato qualche emozione al pubblico. Sono uno stacanovista: quando vado in scena mi trasformo, non do mai buca sul lavoro e mi concedo completamente. Per me è sempre stata indispensabile questa figura, ce l’ho in testa come monito. Da una parte perché voglio proteggerla dal giudizio e dalla cattiveria degli altri, perché le fragilità vanno custodite. Dall’altra mi ricorda che posso superarmi e che il fallimento è solo un concime per vette più alte».
Francesco De Gregori ha scritto per lei «La valigia dell’attore», contenuta nel suo primo disco «Haberrante» del 1995. Com’è nata questa collaborazione?
«Non finirò mai di ringraziare Francesco De Gregori per un regalo simile. In quella canzone c’è tutta la follia costruttiva di chi fa questo lavoro. Non si esaurisce mai ciò che sentiamo dentro e ci aiuta a superare ogni ostacolo. Conosco Francesco dai tempi in cui con il cast di “Sogni d’oro” di Nanni Moretti ci ritrovammo a giocare su un campo di pallone. Poi una sera alla fine di una cena, Mimmo Locasciulli gli ha fatto ascoltare una registrazione mentre cantavo. “Ma chi è che canta? – ha domandato stupito De Gregori – Ammazza che bella voce!”. Io mi sono alzato, ho fatto un brindisi dicendo: “Francesco, allora me la scrivi una canzone?” Locasciulli ha tirato fuori il titolo e una settimana dopo in sala di registrazione piangevo ascoltando quel pezzo meraviglioso scritto per me, e che resterà per sempre».
Nanni Moretti invece le propose una partita a tennis per darle una parte.
«Haber se fai due game ti faccio fare cinque pose nel prossimo film – dice lui – e io li faccio e lui comincia a inalberarsi. Se vinci il set ti faccio fare dieci pose. Io vinco il set. Lui va fuori di sé. Se vinci il prossimo fai il coprotagonista e lì ho perso perché non sono un tennista ma un attore».
Anche le sue partite a poker sembrano la trama di un film. Nel libro racconta di serate al tavolo con Benigni e Proietti per esempio. Con Carmelo Bene invece…
«Con lui persi 250 mila lire. Non avevo niente in mano. Erano tre ore che perdevo. Era l’alba. Lui punta 50, io 250. Carmelo mi trattenne la paga per dieci giorni. 25mila lire al giorno. L’idea di perdere con Carmelo è una gioia».
«Tutti pensavano fossi un cocainomane ma ero solo esuberante», scrive nel libro. Viene spesso frainteso e criticato. Come quella volta in cui è stato accusato di molestie dalla figlia di Gabriele Lavia.
«La storia delle molestie alla figlia di Gabriele Lavia è stata pura follia. Ma stiamo scherzando? Solo a ripensarci mi incazzo ancora. Eravamo davanti a trenta persone in quell’occasione, eravamo sul palco per le prove dell’Otello. E la passionalità del bacio di cui sono stato accusato è la passionalità del personaggio che stavo interpretando, piuttosto. Ho ricevuto delle scuse dopo, ma questa vicenda mi ha fatto molto male. Non ho mai forzato nessuno ad avvicinarsi a me in generale. Figuriamoci se lo faccio con le donne, che sono loro a scegliere se lasciarsi amare».
Ilaria Potenza, corrieredibologna.corriere.it