Ex re del box office Usa, a 55 anni il comico si sente dimenticato. «Sul set ho sempre lottato contro la depressione. Periodo buio dopo la separazione da Zellweger»
L’uomo dalle mille facce si toglie la maschera: sotto c’è una vita difficile. Come tutti i veri clown, Jim Carrey ha una natura malinconica. È stato re del botteghino negli Stati Uniti. Ora, a 55 anni, il comico canadese si sente dimenticato, un outsider; sa bene che Los Angeles è spietata, lui fa progetti ai margini degli Studios. Confida: «Fin da giovane volevo distruggere Hollywood, non volevo farne parte. Volevo essere onesto con me stesso e con gli altri. E l’onestà è sovversiva. Però non mi sembra di stare con le mani incrociate». Ha tre lavori per le tv a pagamento, due saranno su Sky Atlantic: in Kidding è un’icona della tv per bambini; in I’m Dying Up Here è produttore esecutivo di una serie ambientata negli anni 70, nel club più in di comici a Los Angeles. «Mi hanno voluto fare un omaggio, io vengo da quella realtà lì». Dal 17 novembre è su Netflix in Jim & Andy: The Great Beyond, che ha portato con grande successo alla Mostra di Venezia. «Sono immagini del film di Milos Forman, unite al backstage. Nel 1999 Milos mi diede la parte di Andy Kaufman, un comico, pazzo furioso che morì di cancro più di trent’anni fa. Veniamo entrambi da famiglie semplici. In fondo mi specchiavo in lui».
Era la prima volta che si identificava nella vita di un altro: «Un impegno da psicotico perché lì sono Kaufman e allo stesso tempo Tony Clifton, il suo alter ego, un essere sgradevole. Un giorno mi sono detto: Andy tornerà in vita e farà lui se stesso». Andy gli ispirò cose pazze, in uno sketch esclamò al pubblico «Bastardi!» e vide il suo manager impallidire di colpo mentre cercava di non cadere per terra. «Un altro che mi ispirò fu Jerry Lewis, a un certo punto divenne una specie di ossessione. Ma Andy aveva una creatività devastante e un tipo di comicità violenta, esplodevano i primi movimenti femministi e lui faceva wrestling con le donne, uno così o si ama o si odia». Poteva piacere alla grande industria audiovisiva, uno del genere? «Assolutamente no. Da quel documentario, su un comico che interpreta un altro comico, filtra l’influenza che Andy ha avuto su di me. C’è però qualcosa di più sottile e ha a che fare con l’identità. Spero che alla fine la gente dica: Jim non è uno che fa solo smorfie». Dietro le burle si annidano grandi verità, lui dice che «quando si è autentici, è difficile per gli altri indossare una maschera».
Ha voluto fare l’attore perché «cercavo amore e attenzione, pensavo alla fama». Ha cominciato da ragazzino recitando davanti allo specchio. «A 15 anni debuttai in un cabaret, indossavo un vestito giallo di poliestere, fu un’idea di mia madre. Il pubblico mi prese di mira, nessuno a causa dei fischi capì una parola del mio monologo. Ma presto la gente cominciò a sbellicarsi alle mie battute. Facevo le imitazioni di James Dean e Henry Fonda continuando a sbarcare il lunario in mille lavoretti, operaio, corniciaio…». Un comico anarchico. «Non ho mai voluto far parte del sistema, anche quando i miei film sbancavano il box office. La spinta a diventare altro da sé nasceva da uno stato depressivo. Il flusso di energia che attraversa i miei lavori rappresentano una sorta di seduta psicoanalitica. Sì, la solita storia della recitazione come terapia. Non dico niente di nuovo. Nel mio caso era un modo per fuggire dall’infelicità. Mi dipingono esuberante e fragile, beh è così».
Quali sono state le molle familiari? «Mio padre morì troppo presto per applaudirmi. Accadde tre settimane dopo The Mask, il blockbuster fantasy del 1994». Infilò nella sua bara un assegno di 10 mila dollari, «come un riscatto dai suoi fallimenti. Papà suonava il sax per hobby, era simpatico, rideva sempre, ma a casa i problemi economici c’erano e si capiva che mentiva. Per un periodo abbiamo vissuto in un furgone. Un’altra botta fu quando finì la mia storia con Renée Zellweger (a fine dicembre del 2000, ndr), dovetti rimandare le riprese di un anno prima di essere presentabile alla troupe. Ho passato periodi senza controllo. L’umorismo è stato una medicina». Si ferma, sorride: «Sono uno di quelli che il lavoro se lo porta a casa». Non è facile incontrare un tipo come lei, oggi nello spettacolo. «Ho sempre pensato che ci fosse un significato spirituale dietro alle mie battute. Convivo con tanti spiritelli, vedo la vita come una festa in costume. Finiremo tutti nello stesso posto, se esiste. Noi siamo l’universo, siamo delle idee che fondiamo insieme. Non evito la domanda, oggi non so se c’è spazio per una proposta sovversiva. Vedo in giro talenti incredibili, ogni generazione ha i suoi eroi».
Valerio Cappelli, Corriere della Sera