Esplora il significato del termine: Walter Veltroni: «Per i dirigenti di Viale Mazzini contano soltanto i numeri. Ma proporre gli stessi prodotti degli altri network non è servizio pubblico»Walter Veltroni: «Per i dirigenti di Viale Mazzini contano soltanto i numeri. Ma proporre gli stessi prodotti degli altri network non è servizio pubblico»
La Rai, per Walter Veltroni, è un pezzo di identità: «Mio padre fu tra coloro che la fondarono, diresse il primo telegiornale. Mia madre, dopo la sua morte, fu funzionaria per trent’anni. Io sono da sempre un gigantesco divoratore di tv. Penso di conoscere come pochi la storia dell’azienda».
Le piace la Rai di oggi, quella che vediamo?
«Una premessa. Se la Rai propone gli stessi prodotti degli altri network la funzione di servizio pubblico si annulla: perché un cittadino dovrebbe pagare il canone? Il dovere della Rai è restituire qualità».
Cosa intende per qualità?
«L’innovazione dei linguaggi. La diversificazione. La Rai non può scambiare la qualità con la quantità. I dirigenti di viale Mazzini sono abituati ad attendere con ansia alle 10 del mattino i dati dell’Auditel. Non conta più se un programma sia bello o brutto. L’esclusivo metro di valutazione è lo 0,4% in più o in meno di share. Grandi programmi che cambiarono la tv italiana ebbero ascolti non di decine di milioni. Solo qualche esempio: Quelli della notte , Blitz , 16 e 35 di Beniamino Placido. Eppure sono rimasti nella cultura di massa».
La Rai attuale, diretta da Antonio Campo dall’Orto, applica secondo lei questo metro di qualità?
«Credo sia arrivato il momento di ripristinare, come propone da tempo Arbore, l’Indice di Qualità. Tutto, nel nostro tempo, è valutato solo quantitativamente. Così si perderà la bellezza. E si deve poi sapere che in tv più si abbassa l’offerta più si abbassa la domanda. La Rai di oggi? Sta cercando di cambiare passo. Penso alla nuova versione del Rischiatutto che ha funzionato bene, a Gazebo , a Carta Bianca , al programma di Stefano Bollani, alla serata di Roberto Bolle. Trovo Nemo molto coraggioso. E così la proposta di Mika. Ma la tv è, appunto, ricerca, quindi ci vuole pazienza. Invece si ragiona come nel calcio: con due vittorie l’allenatore di una squadra è un genio, con due sconfitte va cacciato. La Rai deve difendere i suoi programmi innovativi. Non gettarli via».
Vale anche per «Politics» con Gianluca Semprini su Raitre?
«Ogni prodotto va esaminato nel merito, non solo in base ai numeri. L’isola dei famosi su Raidue garantiva altissimi ascolti, il 46% in prima serata. Ma era servizio pubblico? Io penso di no. Il sabato sera può significare solo il varietà tradizionale? La Rai, nei suoi momenti migliori, è stata un passo avanti rispetto al Paese. Ha aiutato l’Italia a uscire dalla sua dimensione agricola anche grazie a personaggi come il maestro Manzi e il professor Cutolo. Programmi come i grandi sceneggiati o Tv7 hanno favorito la modernizzazione e la secolarizzazione del Paese. Il merito storico di Beniamino Placido sta nell’aver capito che la Rai non poteva essere strumento di pura propaganda ma di crescita di una collettività nazionale».
Bernabei era accusato di eccessivo pedagogismo…
«Vede, ci sono state tre fasi storiche nella tv italiana. La prima: il monopolio Rai e l’assenza del telecomando. La seconda: l’arrivo del telecomando, la molteplicità dei canali, la crisi della vocazione della Rai che rincorre il modello commerciale. La terza, oggi: le nuove tecnologie consentono una fruizione individualizzata, staccata dal dominio dei signori del palinsesto, con una ricerca di personalizzati percorsi televisivi. È un tempo nuovo che richiede la stessa intelligenza che ha portato l’industria americana a scoprire il valore delle serie e a puntare, anche lì, sulla qualità assoluta, sulla diversificazione e non sulla ripetitività».
Il modello?
«Lo schema della commedia all’italiana, io credo. La grande guerra , Il sorpasso , C’eravamo tanto amat i coniugavano il gradimento del grande pubblico alla qualità. La tv non è una macchina fotografica che ritrae e riproduce il presente. È movimento. Lo capì bene Angelo Guglielmi che propose un grande modello editoriale e culturale con Raitre. La Rai di oggi sta sperimentando nuove strade ma deve riuscire a delineare un progetto unitario da servizio pubblico per il nostro tempo».
Qualcuno potrebbe dire che questo suo discorso serve a «giustificare» il 12% su Raiuno del programma «Le dieci cose», che lei ha ideato. C’è chi ha parlato di flop.
«Io ho fornito l’idea, senza ovviamente interferire nelle scelte autoriali adottate da chi ha più competenza di me. Il programma ha esplicitamente adottato un codice diverso dal canone del sabato sera. Secondo me ha rappresentato un esperimento interessante che ha fatto incontrare milioni di persone con contenuti originali, la società di produzione Magnolia ha avuto segnali di interesse per il format da tv straniere. Ma è chiaro che un prodotto del genere non fa gli stessi ascolti di Ti lascio una canzone …».
Ma è giusto che un ex uomo politico realizzi programmi per la Rai?
«Sono tra i pochi che ha scelto di cambiare radicalmente vita. Ho diretto un giornale, da anni scrivo romanzi e giro documentari che per fortuna sono andati molto bene. Sono tornato alle mie passioni, come un avvocato torna al suo lavoro di prima».
Sono in arrivo i suoi documentari su Raiuno…
«Su richiesta di Rai Storia ho lavorato per mesi a sei documentari dedicati al rapporto tra programmazione Rai e storia italiana. L’ho fatto seguendo sei verbi: sapere, immaginare, cantare, amare, ridere, tifare. Andranno in onda tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio su Raiuno, in seconda serata. Ho trovato un materiale straordinario che dimostra quanto la storia di questa azienda sia indissolubilmente legata alla vicenda dell’Italia contemporanea. Un bene prezioso da difendere, tutelandone l’identità».
di Paolo Conti, Corriere Della Sera