Tomas Milian si è fermato a Miami, dove era arrivato ragazzo da Cuba senza un dollaro in tasca e con un biglietto di sola andata e dove ieri, in faccia all’isola della sua vita, ha lasciato a 84 anni rimpianti e ricordi alla mercé dei biografi. Speriamo venga raccontato bene, Tomas l’anarchico, senza padroni né padrini e con un padre generale dell’esercito, sempre in divisa, suicida quando il figlio che non versò una sola lacrima, portava ancora i pantaloni corti.
Di vesti, in una parabola che lo portò a lavorare con Nanni Loy, Bertolucci, Visconti, Pasolini, Lattuada, Maselli, Sollima padre e Bolognini, Tomas ne indossò tante fin da quando – divorati la Valle dell’Eden e l’epica di James Dean – grazie a una zia meno lasciva, ma non meno generosa di quelle messe in scena da Salvatore Samperi, ottenne i primi soldi per sublimare il sogno di recitare. Planò all’Actors Studio di cui è stato membro fino all’ultimo giorno, Milian, senza parlare una sola parola di inglese, in una spirale adrenalinica in cui il palco si alternava con il mestiere di lavapiatti o di fattorino.
A New York incontrò Gian Carlo Menotti e dall’America partì nel 1958 in direzione dell’Italia per non fermarsi più. Della solida formazione teatrale con tanto di debutto spoletino su testo di Cocteau, si giovarono i tanti registi che nella sua figura-gli occhi profondi capace di incendiarsi di malinconia o di rabbia a seconda delle esigenze e del copione- ritrovarono l’icona dei tormenti borghesi osservati attraverso le riletture di Moravia, l’impotenza del Mastroianni che da brancatiano Bell’Antonio, con Milian si confida, o della ricca provincia marchigiana. Poi Tomas- che amava uomini e donne, indifferentemente, ma sapeva amare davvero, a un certo punto dirazzò dai Festival e dai premi e come d’incanto, dopo una notte milanese di dubbi e cibo sudamericano, disse no a un’offerta di Garcìa Marquez che lo avrebbe voluto arruolare quasi gratis per un film di un amico colombiano.
Si votò allora e per moltissimo tempo a un altrove cinematografico che gli regalò qualche denaro in più, molte avventure da censura, qualche scazzottata non solo a favore di camera con Lee Van Cleef nei western girati in Almerìa o in notevole economia dalle parti di Manziana e poi ne liberò definitivamente l’estro per interpretare -libero dall’equivoco di una missione attoriale che ai tempi doveva per forza o quasi coincidere con la bandiera rossa e l’impegno sventolato –Sergio Marazzi, Er Monnezza, il personaggio paradossalmente più politico della sua vita. Una maschera trucida, irresistibile e sboccata che grazie alla mano solida di due sottovalutati artigiani di rango come Dardano Sacchetti e Umberto Lenzi, gli restituì fama, affetto e una cittadinanza onoraria -più importante di quella ufficiale- nel cuore dei romani. «Essere romano-disse-mi proteggeva il cuore e il cervello, perché un romano non si lascerebbe mai andare alla tristezza, ma riderebbe delle disgrazie e al limite, per dimenticare, si accenderebbe una canna proprio come l’uomo che incarnavo».
VIZI E RESURREZIONE
In altri fumi e in altre nebbie- quasi una tautologia tra vita e cinema- Milian si trovò quando l’epopea del Monnezza tramontò. Il brodo era stato allungato oltre ogni ragionevole considerazione e Milian che era generoso e spiritoso, ma sapeva arrabbiarsi, lottare per quello in cui credeva e si autodefiniva «un figlio di mignotta e un gran rompicoglioni» all’improvvisò staccò la spina all’erede di Marazzi, Nico Giraldi, protagonista di una sporca dozzina di film pensati con l’amico Corbucci.
L’accanimento terapeutico e lo sfruttamento intensivo senza più alcun lampo diedero alla luce troppi film pensati, prodotti e girati in tre settimane (senza chiedere permessi e spesso riutilizzando spesso tagli da altre pellicole)e la mancanza di idee e la saturazione di un pubblico che aveva prima reso ricca l’industria di Cinecittà e poi, tra un poliziottesco e una doccia di Gloria Guida vista dal buco della serratura, aveva finito fatalmente mostrato la corda, fecero il resto. Di parrucche, rime baciate e trivio sempre meno ispirato, a non poterne più per primo era stato proprio Milian. I capelli cadevano. Il tempo scorreva.
Le offerte languivano e Tomas riempì nuovamente la valigia per compiere il viaggio inverso. Erano gli anni in cui Milian si affacciava sul baratro, confondeva la notte con il giorno e la Cocaina riempiva i vuoti esistenziali. Le tasche, tra un vizio e un regalo agli amici diventati via via più proci che sodali, erano diventate sempre più vuote. A Tomas, votato allo spreco, anche del grande talento, per indole e inclinazione, dei soldi non importava nulla, ma la finzione, il set e la metarealtà evidentemente non bastavano più. «Tomas è vulnerabile, ingenuo e timido-rivelò lui in una sorta di autoanalisi- Monnezza è saggio, senza timori ed estroverso». Per ritrovarsi e non essere schiacciato, Milian tornò in America, lavorò per Spielberg e Soderbergh si riprese e guardò con misticismo senile al trascendente. Per i più è rimasto un dio anche se Tomas– uno che a un francescanesimo fatto di letti precari e tetti incerti, a tratti e a suo modo si era dato a fondo pregando solo di potersi svegliare vivo il giorno dopo- un altare tutto per sé non avrebbe mai avuto la presunzione di desiderarlo.
di Malcom Pagani, il Messaggero