Il principe è tornato, ormai re. Non più in cerca di una moglie ma di un erede al trono di Zamunda. Eddie Murphy si rimette la corona, oltre trent’anni dopo la commedia record di incassi del 1988, chiamando a raccolta per il sequel veterani, come Arsenio Hall e nuovi campioni afroamericani della risata. Il «Monte Rushmore della comicità nera», per dirla con le parole di Tracy Morgan, tra le new entry de Il principe cerca figlio, diretto da Craig Brewer, su Amazon Prime dal 5 marzo. Monumento nazionale vivente è a tutti gli effetti Eddie Murphy: una sorta di re Mida della scena. Il debutto neanche ventenne al Saturday Night Live, dove inizia il suo connubio artistico con John Landis che lo diresse prima in Una poltrona per due e Il principe cerca moglie (Coming to America) e nell’ultimo capitolo della saga Beverly Hills Cop. Da 48 ore in poi, con Nick Nolte è il comico più popolare degli anni Ottanta. Ha lasciato il segno anche nel cinema d’animazione, con il doppiaggio del ciuchino di Shrek. Alle soglie dei 60 anni (li compirà in aprile), padre di dieci figli — una, Bella, è nel cast — ha accettato di tornare nel regno di Zamunda, non solo da attore ma anche da produttore. Consapevole di aver lasciato il segno con l’originale, considerato un cult. «Fu il primo film con un cast interamente di attori afroamericani a avere successo in tutto il mondo, cosa che è capitata a pochi altri titoli. Il secondo con protagonisti re e regine neri è stato Black Panther. Il terzo, ora, è Il principe cerca figlio».
Di nuovo a Zamunda, dunque, dove il re Akeem, padre orgoglioso di tre femmine, festeggia il trentennale del suo regno, mentre l’uscita di scena del padre Jaffe Joffer, lo obbliga a indicare un erede maschio. Come tradizione vuole. «Volevamo far rivivere l’atsmosfera del primo film — spiega Murphy — riprendere la storia, unire tutti i puntini». Rivisitata e corretta in sintonia con la realtà contemporanea, dove le donne non si accontentano di stare a guardare, neanche nelle favole. «Non saremmo qui senza le donne nere», è il motto del film che celebra l’orgoglio black e, spiega Murphy, «parla di famiglia, amore, tradizione, ricerca di identità. E dell’importanza di fare la cosa giusta». Come fece lui, sempre nel 1988. Lo chiamarono come presentatore alla cerimonia degli Oscar e non perse l’occasione di lasciare il segno anche lì. «Probabilmente non vincerò un Oscar per quello che dirò ma devo dirlo. Il mio manager mi ha detto che l’Academy mi aveva chiamato. La mia prima reazione è stata dire di no, non vado, perché non hanno mai riconosciuto il ruolo degli attori neri. Voglio che sappiate che consegnerò il premio ma che i neri non se ne staranno nei vagoni di coda». La profezia si è avverata: non ha mai vinto l’Oscar (una sola candidatura, nel 2007 come attore non protagonista per Dreamgirls), e certo non lo vincerà con questa nuova favola. Ma i suoi colleghi, attori e attrici, non si sono accontentati di stare nelle retrovie.
Stefania Ulivi, Correrei.it