«Rosso Istanbul» girato in Turchia: set bloccato dopo gli attentati. «Era impossibile girare a Galatasaray, dove le madri protestano per la scomparsa dei propri figli»
«È il mio film più personale», dice Ferzan Ozpetek. Il suo cinema, che parla alla pancia dello spettatore, ha a che fare con la sua vita; ma in Rosso Istanbul(dal 2 marzo in 200 copie per 01) c’è qualcosa in più: un uomo torna dopo vent’anni a Istanbul e resta intrappolato nei ricordi rimossi. Ritrova una città «che muta continuamente», le trivelle dei cantieri frenetici si sovrappongono al canto dei muezzin, «sacro e profano» dice lui. Tutto si incrocia: quell’uomo (Halit Ergenc) è un editor che deve aiutare un famoso regista di cinema (Nejat Isler) a finire il suo libro. Il regista sparisce. La donna e l’uomo a cui egli è più legato (Tuba Büyüküstün e Mehmet Günsur) entrano nella vita dell’altro. «È stato come immergermi nel passato, evocare personaggi e luoghi», dice Ozpetek.
Il suo primo lavoro interamente girato nel paese d’origine
È il suo primo film girato tutto in Turchia, con attori turchi che lì sono beniamini; una storia densa, complessa, che non ti «abbraccia» subito, sospesa come l’umanità raccontata da Ozpetek, come i ponti del Bosforo che dividono Asia e Europa. Il fiume che divide e unisce è la carta d’identità del regista: la Turchia dell’infanzia e l’Italia della sua vita giovanile e adulta: «Ho lasciato la Turchia per una scelta di vita ed è stata una cosa bellissima». Una coproduzione italo-turca, però dopo le tante difficoltà, l’apertura del set rinviata due volte a causa degli attentati, la troupe italiana si è ridimensionata e alla fine a fare la spola sono rimasti Gianni Romoli e Tilde Corsi che dice: «Le elezioni in Turchia, l’Isis… Si era bloccato tutto. Abbiamo voluto andare avanti senza abbandonare il progetto, dopo un attentato suicida abbiamo girato da un’altra parte».
Ci sono tante scene che raccontano la Turchia di Erdogan
Girare nella Turchia di Erdogan. «Ma non è un film politico. Ho messo le madri che protestano perché non si sa più nulla dei loro figli, è stato impossibile girare a Galatasaray dove portano la loro denuncia; poi le brevi apparizioni dei militari, o i curdi costretti a scappare. Il personaggio del regista che ritaglia articoli degli attentati». Ozpetek non dice se il regista sia sparito di sua volontà. «Sarebbe facile raccontare i fatti, poliziotti e manganelli. Non mi interessava. Erdogan? Ha favorito lo sviluppo del Paese: il progresso è un’altra cosa». Si entrerà nei suoi ricordi, li ha sfogliati come pagine del suo romanzo a cui si è liberamente ispirato, ha mantenuto umori, colori, malinconie. Il trasloco con i mobili ricoperti da lenzuola che sembravano fantasmi, «avevo perso mia madre, e a lei ho dedicato il film»; le scene con gli amici sulla riva del Bosforo che l’editor, il suo alter ego, cerca di attraversare: «Provai anch’io a tredici anni, dopo dieci bracciate tornai indietro».
L’omosessualità qui è meno centrale
L’omosessualità è meno centrale del solito: «Sono gli altri registi che tolgono, non io che metto». Cioè? «L’amore tra persone dello stesso sesso fa parte della vita, è il cinema a non raccontarlo». Se guardi il passato non vivi il presente, dicono nel film. «Io sono così. Però mentre scrivevamo guardavamo sempre al passato».
Valerio Cappelli, Corriere della Sera