Sophie Marceau, il tempo delle scelte

Sophie Marceau, il tempo delle scelte

Si avvicina con passo deciso e, quando me la ritrovo davanti, fatico a credere che Sophie Marceau abbia cinquantacinque anni: ne dimostra dieci di meno. Avvolta in un tailleur color panna, l’attrice che negli anni ’80 era l’idolo delle ragazzine grazie al Tempo delle mele, accavalla le gambe in un modo che riesce solo alle dive francesi. Tra i suoi fan più appassionati c’è il regista François Ozon, che è riuscito ad averla in un suo film solo al terzo tentativo. La vedremo al cinema dal 13 gennaio in È andato tutto bene, adattamento del bellissimo libro di Emmanuèle Bernheim (Einaudi), che racconta la storia, in parte autobiografica, della figlia di un uomo carismatico e di successo, che però è stato un pessimo genitore. E che, dopo aver scoperto di essere malato,  le tira un ultimo colpo basso chiedendole di aiutarlo a morire.

François Ozon l’ha inseguita  per anni. 
«In realtà, prima di questo progetto ci eravamo incontrati di persona solo due volte. Non ho mai accettato di recitare per lui perché non mi sentivo a mio agio nei ruoli che mi proponeva. Ma amo i suoi film,  a partire dal primo che ha diretto (Sitcom – La famiglia è simpatica, del 1998, ndr). Quando mi ha mandato la sceneggiatura di  È andato tutto bene, sono rimasta colpita dalla concretezza, dal non perdersi nelle emozioni. Abbiamo girato per due mesi, e anche se da attrice non sai mai quale sarà l’esito del tuo lavoro, la collaborazione con François è stata perfetta». 

Avete discusso di eutanasia, prima di girare il film? 
«Certo, è importante sapere come la pensa un regista, perché si possono avere idee molto diverse. Visto il tema, ho provato ad approcciare il discorso puntando sull’aspetto psicologico. Ma lui rispondeva sempre: “Sì, ok, che cosa stavamo facendo?”. François è un uomo di poche parole». 

Nel suo film precedente, Estate ’85, Ozon ha inserito una scena simile a quella del Tempo delle mele dove il ragazzo di cui era innamorata, Mathieu, le metteva le cuffiette del walkman. Prima di poterla dirigere, l’adorava così tanto da «citarla» nelle sue pellicole? 
«Non l’ha fatto per me. Semplicemente, era innamorato dell’epoca rappresentata in quel nostro film. È stata la nostalgia di quando eravamo giovani a ispirarlo, sappiamo tutti di che cosa si tratta». 

Che effetto le fa oggi ripensare  al Tempo delle mele? 
«È stato un film super, un successo planetario, grazie al quale abbiamo poi avuto la fortuna di girare il mondo. Ero giovanissima, ricordo molte stanze d’albergo.  A piacermi, però, non era il fatto di scoprire luoghi diversi, quanto la possibilità di incontrare tante persone, dal Giappone all’Italia, con le quali discutere di un argomento universale: il primo bacio».

Anche il tema di quest’ultimo film è universale. 
«Lì era il primo bacio, qui la prima “morte”. Diciamo che è stato meno leggero da girare». 

Che emozioni ha portato a galla? 
«Uno tsunami: dalla risata alla disperazione. La perdita di una persona cara cambia gli equilibri delle vite di chi resta». 

Si è limitata a interpretare la parte oppure ha attinto alla sua vita, alla sua esperienza di figlia? 
«Ci ho messo dentro la mia voce, il mio corpo, la mia esperienza. Non solo la mia, a dire il vero, ma quella di tutte le persone che conosco. Siamo diversi uno dall’altro, ma attraversiamo le stesse grandi vicende. E più invecchio, più traggo esempio dalle persone che conosco». 

Sua madre e suo padre si sono separati quando lei aveva nove anni. Ricorda quando ha capito che non erano più solo genitori, ma esseri umani con i loro problemi, gusti e sentimenti? 
«Sì, ma ancora oggi penso di non averli conosciuti davvero. Quando sono morti, mi aspettavo di scoprire chi erano stati veramente, nel profondo. Invece, me lo sto ancora chiedendo. C’è una parte intima di loro che mi sfugge». 

Se potesse, c’è qualcosa che chiederebbe a uno o a entrambi? 
«Non saprei, dove mi porterebbe? Sono fatalista, non credo che nella vita si possa risolvere tutto. Accetto il fatto che dobbiamo convivere con aspetti che non comprendiamo».

Che cosa ricorda degli anni in cui il colosso della produzione cinematografica francese Gaumont le fece firmare un ingaggio milionario in esclusiva? 
«In Francia chi fa cinema è molto motivato e si impegna davvero. Magari c’è qualche ego di troppo in circolazione, ma il nostro è un modo artigianale di creare. Per risponderle, ricordo come mi hanno cresciuta. Nonostante si trattasse di produzioni importanti, noi eravamo bambini e ci trattavano come tali, non come star. Mi vedo ancora lì, seduta, a parlare con i responsabili della fotografia».

Tutte cose che sui set americani non succedono. 
«Ti licenziano per molto meno. Lì un regista non può nemmeno spostare una sedia, non rientra nelle sue competenze. Per me il cinema sei tu, davanti a una macchina da presa, con un partner e un regista». 

Parla come se non fosse mai stata sul set di Braveheart o di 007. 
«Nel Mondo non basta sono stata una cattiva. Era la prima volta che mi cimentavo in un ruolo del genere e ho provato quella sensazione spettacolare che porta a sovradimensionare i personaggi. Quando giri un film di 007, ti senti subito come Catwoman o Hulk. Non è esattamente l’idea che in Europa abbiamo del cinema, ma mi piace lo stesso».

È rimasta amica con Pierre Cosso? Sul set del Tempo delle mele 2 vi eravate innamorati. 
«Con Pierre non ci sentiamo più. Vive su un’isola con la sua famiglia, credo che faccia il marinaio e sia felice».

Lei sembra non invecchiare mai. Qual è il suo segreto? 
«Mia madre era meravigliosa. Quando guardo sua sorella, che ha 80 anni ed è ancora fresca come una rosa, capisco di avere ereditato una fortuna di famiglia».

Che cosa le manca di quando era bambina? 
«Mi piaceva correre, ecco cosa mi manca. Non riuscivo a muovermi da un posto all’altro senza farlo, e mi sentivo leggera come un uccello. Adesso, invece, mi tocca camminare. Se mi cimento in qualche sport, il giorno dopo ho male dappertutto».

Lei è considerata un’icona di stile, è stata anche «ambasciatrice del fascino francese» in Oriente. 
«Pensi che una volta un produttore mi ha detto che ero vestita come una cameriera. Molte direttrici di magazine di moda mi hanno odiata perché ero troppo piatta, non sapevano che abiti farmi indossare per le foto di copertina. Ma i tempi sono cambiati, quando ho iniziato dovevo fare tutto da sola, non avevo nemmeno un agente. Poi ne ho avuto uno, ma era una spia».

Come una spia? 
«È una storia lunga, comunque non avevo né un avvocato né un addetto stampa, e andavo a fare i servizi fotografici con i miei vestiti addosso. Non mi sono mai comportata come una diva. Per intenderci: non ho nessuna delle caratteristiche che di solito vengono attribuite alle attrici».

In che cosa è diversa? 
«Accetto di avere persone che si prendono cura di me quando giro un film, ma nella mia vita preferisco fare da sola. Soprattutto, non voglio assolutamente che qualcuno cerchi di cambiarmi».

Lei ha due figli: Vincent, 26 anni, e Juliette, 19. È vero che sua figlia le fa osservazioni molto puntuali sul suo lavoro di attrice? 
«Una volta mi ha detto: “Mamma, non ti ho mai vista prendere la metropolitana in vita tua. Però, nel resto del film sei brava”».

VanityFair.it

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