Perché Emily in Paris 2 merita la nostra indulgenza

Perché Emily in Paris 2 merita la nostra indulgenza

Partiamo da una premessa doverosa: di personaggi più irritanti di Emily Cooper se ne trovano davvero pochi sulle piattaforme, sui canali televisivi e un po’ ovunque. Eppure, sarà per quell’aria un po’ pasticciona e un po’ «campagnola», come la descrivono i suoi colleghi di Savoir, che l’antipatia fa un giro talmente largo da spingerci a continuare a a seguire le sue avventure per capire dove vadano a parare. È molto difficile parlare di Emily in Paris, la nuova gallina dalle uova d’oro di Netflix, prendendola come un prodotto analizzabile sul piano della realtà e della verosimiglianza: è tutto talmente colorato e patinato che forse il miglior modo per godersela è prenderla per quello che è, ossia una coreografia stereotipizzata che, in fondo, è perfetta per essere consumata una sera sul divano senza impegnare troppo il cervello. Emily in Paris è, secondo una definizione molto calzante di Zerocalcare, una di quelle serie perfette da guardare quando si fa qualcos’altro: non così leggera da seguirla con gli occhi chiusi, ma neanche troppo cerebrale da richiedere la massima concentrazione, e questo è un vantaggio.

È stato questo, dopotutto, il motivo che ha portato la serie a essere una delle più viste durante il lockdown: breve, leggera, spumeggiante. Non la ricorderemo per la qualità della scrittura – ancora non capiamo com’è che sia stata candidata agli Emmy al posto di quel gioiellino di I May Destroy You -, ma, forse, il motivo principale per dare un senso alla serie è un altro: capire in che maniera gli americani guardino l’Europa, con la quale sembrano spesso nutrire un complesso d’inferiorità non meglio diagnosticato. Durante la prima stagione, Emily arrivava a Parigi per lavorare un anno nella filiale francese della sua azienda di Chicago aspettandosi di trovare tutto quello che gli americani potevano aspettarsi da Parigi: cibo, vino, fumo, sesso e Tour Eiffel. Nel corso delle puntate l’abbiamo vista scandalizzarsi per l’indole libertina dei parigini che, dal canto loro, non hanno minimamente gradito l’approsimazione narrativa che la serie di Darren Star, già dietro il successo di cult come Beverly Hills 90210 e Sex and the City, ha cercato di impremere agli usi e costumi della città (a noi italiani è successo recentemente con House of Gucci, ma quella è un’altra storia). Nei nuovi episodi Emily, che ha il volto e le onde ai capelli marmorizzate di Lily Collins, riprende il suo dramma personale lì dove si era interrotto: con una notte di sesso selvaggio con il bel Gabriel (l’affascinante Lucas Bravo), convinta che il giorno dopo non l’avrebbe più rivisto.

Naturalmente le cose sono andate diversamente,e Gabriel è rimasto a Parigi, costringendo Emily a fare i conti con Camille (Camille Razat), la sua nuova migliore amica nonché ex fidanzata del ragazzo. In mezzo a viaggi a Saint-Tropez, sfilate pacchianissime nei saloni pieni di specchi di Versailles e i classici intrallazzi amorosi che in una comedy non guastano mai, Emily in Paris 2 riesce anche a dirci qualcosa in più della crescita di Emily, che capisce finalmente di doversi adeguare alla sua nuova vita iscrivendosi a un corso di francese (non si capisce, infatti, perché i francesi debbano parlare inglese apposta per lei e lei non si sia mai sforzata di parlare francese con loro), pur non riuscendo a gestire in maniera lucida e matura la sua vita privata. I risultati sono alquanto disastrosi, ma lo sviluppo degli episodi – fatta eccezione per il fatto che i personaggi sono tutti bellissimi e magrissimi, non proprio il ritratto inclusivo che Netflix aveva promesso alla vigilia – è abbastanza coerente e intrigante. A parte le lunghe e inutili sequenze musicali di Mindy (Ashley Park) e i costumi da Barbie anni Novanta di Emily realizzati da Marylin Fitoussi (chi mai si vestirebbe così per andare a prendere un cappuccino?), Emily in Paris regala anche delle scene topiche. Come quella in cui Emily e Luc vanno a vedere al cinema Jules e Jim, uno dei film più belli di Truffaut, ed Emily si scandalizza per un finale che reputa macabro e decisamente poco rispettoso nei confronti degli spettatori. 

A rimanere impressi, però, sono soprattutto i personaggi di contorno, a tratti più interessanti della protagonista: dalla meravigliosa Sylvie (Philippine Leroy-Beaulieu), diventa finalmente la Miranda Priestly sexy e pungente che speravamo di vedere nella prima stagione, al divertente nemico-amico di Emily Julien, perfetto per innescare le dinamiche comiche più divertenti della serie sul modello del conflitto tra Marc e Betty in Ugly Betty. A spiccare su tutti negli ultimi episodi, però, è Madeline (Kate Walsh), la capa di Emily che, da Chicago, arriva a Parigi offrendo il ritratto di una donna pacchiana e aziendalista che è anche l’essenza più piena dell’americanità esportata all’estero. In definitiva, Emily in Paris è un prodotto sul quale non ha senso scatenarsi gridando allo scandalo e all’assenza di profondità: certe serie devono essere guardate senza troppe pretese e, dopotutto, come diceva Virginia Raffaele nei panni di Francesca Pascale, « facimoci ‘na risat».

VanityFair.it

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