Arabia Saudita, la rivoluzione culturale parte dal Red Sea International Film Festival

Arabia Saudita, la rivoluzione culturale parte dal Red Sea International Film Festival

Il primo evento cinematografico internazionale nella Storia del regno ha attirato mezza Hollywood, da Hilary Swank a Naomi Campbell. E ha riservato molte sorprese

Che il cinema abbia ancora il potere di fare la Storia è di per sé un miracolo. E non in termini di incassi, ma proprio di cambiamenti sociali e culturali. 

I mesi di lockdown hanno fatto percepire al pubblico la mancanza della sala, dell’immersione al buio in avventure nuove, in mezzo a sconosciuti. Ma l’assenza è tutta un’altra faccenda.

In Arabia Saudita il primo cinema ha riaperto i battenti dopo 35 anni solo nel 2018 e così questo regno, con una storia di quasi tre secoli, ha rivisto in qualche modo la luce. Merito di Black Panther, il cinecomic Marvel, ma soprattutto di una nuova politica illuminata denominata «Vision 2030» con cui il giovane principe ereditario Mohammed Bin Salman, oggi 36enne, intende traghettare il più conservatore dei Paesi arabi nel futuro. Non che la tradizione venga spazzata via d’un colpo, ovviamente: c’è ancora la divisione di posti per genere, oltre al vaglio preventivo dei contenuti, ma qualcosa si sta decisamente muovendo.

Ecco perché il Red Sea International Film Festival, che si è svolto dal 6 al 15 dicembre, è un evento di proporzioni colossali per la svolta moderna della nazione. Si tratta, infatti, del primo evento cinematografico mai ospitato dalla nazione e ha convogliato non solo il meglio del cinema del Medio Oriente ma i titoli più acclamati a livello mondiale (l’apertura è stata affidata al musical-capolavoro Cyrano con Peter Dinklage de Il trono di spade).

Il termometro dell’attesa ha registrato temperature persino più alte di quelle della regione grazie alla presenza sul red carpet di mezza Hollywood. Hanno sfilato star del calibro di Hilary Swank, Clive Owen, Anthony Mackey ed Ed Westwick, accanto a stelle francesi come Catherine Deneuve (insignita del premio alla carriear) e Vincent Cassel con la moglie Tina Kynakey. Tante, tantissime, le modelle: Alessandra Ambrosio, Candice Swanepoel, Irina Shayk e Sara Sampaio. Non sono mancate le celebrity spagnole di Netflix, da Darko Peric (La casa di carta) a Maria Pedraza (Elite).

L’Italia è stata rappresentata con grande onore da Giuseppe Tornatore, presidente di giuria, che ha mostrato al pubblico il suo acclamato documentario sul Maestro Morricone, Ennio, con la produttrice Gisella Marengo. Tra i più applauditi e attesi il nostro Michele Morrone, che ha raggiunto fama planetaria grazie a 365 giorni, la versione polacca di Cinquanta sfumature, già un piccolo (s)cult di Netflix.

Per assistere all’evento storico, l’organizzazione – capitanata da Mohammed Al Turki e Shivani Pandya Malhotra – ha invitato un numero ristretti di giornalisti da tutto il mondo (dall’Italia solo due, tra cui l’inviata di Vanity Fair).

L’appuntamento ha modernizzato (momentaneamente) la cornice patrimonio dell’UNESCO della città antica di Gedda per convogliare il pubblico dell’evento nelle varie multisale. La parola d’ordine, però, è rimasta ‘sicurezza’ con protocolli di controllo del green pass, test molecolari a tappeto e distanziamento.

Una società intera è tornata in sala e ha visto, sullo schermo, realtà diverse, lontane, con costumi differenti eppure umane e quindi vicine. Temi finora taboo, dallo stupro all’aborto, sono stati condivisi dalle storie della settima arte e l’empowerment femminile è stato celebrato con il premio alla prima regista araba, Haifaa Al-Mansour. Quasi dieci anni il suo film La bicicletta verde aveva raccontato, quasi autobiograficamente, di una bambina a cui – come tutte le coetanee – era vietato salire in sella perché (per semplificare) a differenza dei maschietti si pensava che quel gesto potesse provocare piacere nelle donne e quindi considerato inappropriato e impuro.

Basti pensare che ora – dal 2019 – è possibile richiedere un visto turistico nel Paese, una possibilità finora non prevista dalla normativa locale. Il Paese vuole comunque che le donne, anche quelle in visita, indossino abiti lunghi (quello locale si chiama abaya), ma senza l’obbligo del velo (l’hijab). E i 14 milioni di dollari stanziati dal Red Sea Fund per incoraggiare oltre cento cineasti a mostrare la realtà che li circonda e far sentire la propria voce oltre confine è un passo nella giusta direzione.

Da giornalista e donna occidentale cattolica, l’approccio con una società tanto diversa per valori, credenze e regole, ha qualcosa di affascinante ma al tempo stesso è influenzato da una sorta di sentore sotterraneo. È come un leggerissimo retropensiero che fa scattare campanellini d’allarme in ogni situazione perché qui vige ancora la guardiania musulmana, quell’interpretazione rigida del Corano per cui una donna deve sempre stare sotto la tutela di un maschio. 

Non ce n’è stato alcun bisogno, alla fine, perché l’ambiente protetto e multietnico creato dal festival ha permesso una condivisione autentica. Un primo, timido, passo per cambiamenti più radicali. Si vede nello sguardo pieno di speranza e aspettative delle giovanissime volontarie, vestite in abiti tradizionali eppure desiderose di capire quali orizzonti si prospettano per le proprie coetanee al di là del Mar Rosso. È ovvio che lo abbiano visto in rete e sui social, ma dal vivo mai.

Rispetto alla Capitale Riyad, che ho avuto modo di visitare un paio d’anni fa in occasione della stagione culturale, questa città sul mare mostra immediatamente una vocazione di maggiore apertura e una spinta all’incontro. Per questo è il luogo ideale per piantare il primo seme di una cultura cinematografica, che sia intrattenimento e business. Ancora non esistono scuole di cinema, ma i fondi stanziati a favore della settima arte dimostrano un interesse concreto per un campo finora precluso. Non che si abbia la presunzione di conoscere un paese intero in dieci giorni, ma qualche input sulla società sicuramente si può ricevere. Esiste, fortissimo, il doppio standard di trattamento di genere e spesso come donne ci si sente invisibili e non in senso figurato, ma proprio fisico. Quando sei in fila in un negozio, accanto all’ascensore o proprio in mezzo alla strada, è evidente che i maschi non prestano la minima attenzione alla tua presenza, la ignorano e la bypassano, come se non fossi lì. Come se, in effetti, dovessi chiedere sempre permesso di esistere o scusa perché ingombri quello spazio, quasi fosse riservato solo a loro. E forse fino a poco tempo fa lo era davvero, ma ora non più. 

A volte le stesse donne rispondono con più sollecitudine all’assertività maschile rispetto alla gentilezza femminile perché non sono più abituate a dare lo stesso peso a interlocutori di generi diversi. Trovarsi davanti una giovanissima addetta agli shuttle del festival e constatare ogni singola volta l’incapacità di ascolto nei confronti di una donna rispetto all’assoluta disponibilità riservata ai colleghi maschi è solo un piccolo esempio di come le generazioni siano state programmate a lungo per ascoltare ed esaudire i bisogni del patriarcato, senza vedere altro. Nei piccoli gesti quotidiani, invece, per una settimana queste ragazze hanno incrociato sguardi nuovi, diverse esperienze e hanno notato una spinta al trattamento alla pari delle ospiti occidentali. Magari non lo capiscono né lo accettano, ma lo vedono così come noi ci accorgiamo di un mondo che finora ci era precluso.

Per osmosi, ci si cambia a vicenda, purché lo si voglia e questo primo tentativo di evento internazionale cinematografico condiviso mescola l’ufficialità del programma alle esperienze quotidiane muovendosi davvero come spinta propulsiva verso un domani più aperto. Le nuove generazioni non aspettano altro che di affacciarsi ad un mondo eterogeneo che finora hanno sbirciato solo dallo schermo di un device e che ora, invece, possono davvero toccare da molto, molto vicino.

VanityFair.it

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