Esplora il significato del termine: In «Il cittadino illustre» i registi argentini Gastón Duprat e Mariano Cohn usano il sarcasmo per sottolineare il lato provinciale del loro Paese
Che cosa preferirebbero gli accademici svedesi alla cerimonia di conferimento del Nobel per la letteratura? Un cortese rifiuto come quello che hanno ricevuto da Bob Dylan o un discorso di ringraziamento acido e fortemente critico come quello che legge Daniel Mantovani, lo scrittore argentino inventato da Mariano Cohn e Gastón Duprat (e da suo fratello Andrés Duprat, sceneggiatore) per il film Il cittadino illustre? Interpretato da un magistrale Oscar Martínez — che per questo ruolo ha vinto a Venezia con la Coppa Volpi — il protagonista del film dice davanti al re di Svezia e agli accademici quello che in tanti pensano (anche per il vero Nobel a Dylan), che il riconoscimento arriva sempre tardi, quando ormai la sua vena creativa si è inaridita e che quell’onore finirà per chiuderlo definitivamente in un museo, tra i «morti» della letteratura.
Come argentini, i due registi avevano forse qualche sassolino da togliersi visto che nella realtà nessun loro compatriota ha mai ricevuto la massima onorificenza letteraria, nemmeno Borges, ma cinematograficamente quel discorso nemmeno tanto sorprendente serve per introdurre il carattere del loro protagonista, ispido e spigoloso, che sembra farsi un vanto nel rifiutare ogni altro tipo di riconoscimento o di invito, chiuso nella sua casa di Barcellona. Solo per uno fa eccezione, spinto da una motivazione quasi inconscia, quello che gli arriva da Salas, l’immaginaria cittadina argentina che gli aveva dato i natali e da cui era fuggito ventenne, ma dove aveva ambientato i suoi romanzi, traendo ispirazione da persone e fatti locali. E così, il «cittadino illustre», come dice la motivazione dell’onorificenza che gli sarà consegnata, torna a passeggiare per le strade che l’avevano visto giovane, dove ognuno sembra farsi un titolo d’onore nel ricordare quello che lo lega all’illustre emigrato, rivendicando magari la somiglianza con questo o quel personaggio dei suoi libri. Oltre all’incontro con la fidanzata di gioventù, Irene (Andrea Frigerio), che dietro la freddezza formale forse conserva un po’ del sentimento di allora, e con il suo invadente marito, Antonio (Dady Brieva), troppo espansivo per non nascondere qualche retropensiero.
Se l’incontro di Salas con il suo «figliol prodigo» offre l’occasione ai due registi per dar prova di tutto la loro sarcastica ironia nello stigmatizzare il provincialismo piccolissimo-borghese della provincia argentina, con tanto di miss-con-fascia ad accoglierlo e attraversamento della città sul camion dei pompieri, il film rivela da subito altre ambizioni quando costruisce delle situazioni — le «lezioni di poesia», il confronto con gli inevitabili questuanti o con gli aspiranti scrittori — che aprono il film verso discorsi più alti e complessi. Senza mai dare l’aria di voler salire in cattedra, Daniel Mantovani si trova a «spiegare» gli spunti reali da cui ha tratto i suoi personaggi, il legame che unisce esperienza e fantasia, l’importanza della creatività e della pratica letteraria, arrivando così a tracciare un quadro della complessità del lavoro artistico che parte dalla letteratura e finisce per abbracciare anche il cinema. Che rimanda al film precedente dei due registi, El artista (dove un infermiere si spacciava per l’autore dei quadri di un paziente autistico), e che avrà nel finale una sorprendente conclusione.
Ma il film non si ferma qui, perché nella seconda parte si apre su un ambizioso ritratto della miseria morale che sembra vincere ovunque, dall’improbabile concorso di pittura locale dove la qualità deve andare di pari passo con il ruolo istituzionale al disinvolto comportamento della disponibile Julia (Belén Chavanne). Sulla cui identità il film offrirà una inattesa rivelazione. Ed è soprattutto sul complicato rapporto che l’Argentina (e gli argentini) hanno con le radici europee — loro che sono un Paese fatto per la quasi totalità di immigrati — che il film sa assestare i suoi affondi più lucidi, con quella accusa fatta a Mantovani di essere un «apolide» perché ha lasciato la sua terra natale. Il che porta allo scoperto la fragilità di un Paese che ancora adesso sembra alla ricerca di una forte e coesiva identità nazionale.
di Paolo Mereghetti, La Repubblica