«Molto onorata, ma se l’Oscar me lo portavano a Roma era più comodo». Lina Wertmüller non rinuncia all’ironia nemmeno alla vigilia del riconoscimento più ambito che un artista di cinema possa desiderare. «Non è una battuta ironica, è la verità. Per carità, sono molto grata, anche se il premio alla carriera suona sempre un po’ come premio finale. Lo dedico a Enrico (Job) e a mia figlia Maria Zulima. Ma ringrazierò in italiano, non ci penso proprio a dire qualcosa in inglese». E racconta un aneddoto che risale al 1977, quando fu la prima donna a essere candidata all’Oscar per il film Pasqualino Settebellezze: «Giancarlo (Giannini) ed io, dovendo andare a Los Angeles per partecipare alla cerimonia, decidemmo di fare un corso d’inglese accelerato a New York per ben due mesi. Finito il corso, un giorno prendemmo un taxi per andare non ricordo dove, ma quando il tassista si rivolse a noi ovviamente in inglese non capimmo assolutamente niente. Arrabbiatissima dissi a Giancarlo: che abbiamo studiato a fare se non capiamo nemmeno quello che ci dice un tassista?».
Intanto Lina si prepara alla partenza per gli States ormai imminente. Il 27 ottobre a Hollywood riceverà la celebre statuetta: «E sarò in buona compagnia», commenta divertita alludendo agli altri tre premiati David Lynch, Wes Studi e Geena Davis. Ma non basta. Al suo rientro l’attende un altro impegno, stavolta teatrale: il 23 dicembre al Teatro Quirino firma la regia di A che servono gli uomini?, commedia musicale di Iaia Fiastri, con Nancy Brilli protagonista e le musiche originali di Giorgio Gaber. «È un omaggio a Iaia – sottolinea, ricordando l’amica commediografa scomparsa nel dicembre 2018 – e poi mi interessa il tema trattato perché è molto attuale, pur essendo una pièce scritta negli anni ‘80. Un argomento caro a tante donne sole: il desiderio di avere un figlio».
Teodolinda, detta Teo dagli amici, è una donna in carriera, fotografa di talento, soddisfatta del suo lavoro e della vita da single. Ormai giunta a un’età cruciale, sente la mancanza di un figlio. «Teo, reduce da varie vicissitudini sentimentali e insofferente al genere maschile – spiega Brilli – scopre che il suo vicino di casa è un medico impegnato in un laboratorio dove si pratica l’inseminazione artificiale. Con la scusa di visitare il laboratorio, ruba una provetta e riesce a diventare madre senza avere il fastidio di un rapporto con l’altro sesso». Quarant’anni fa, quando è stata concepita la commedia, la fecondazione assistita era, in Italia, quasi un tabù. «Oggi è all’ordine del giorno – replica Wertmüller – Le donne non hanno più bisogno degli uomini. E infatti, anche se nel titolo c’è il punto interrogativo, in realtà è un’affermazione: la frase “a che servono gli uomini” solleva una riflessione, fatta con tanta ironia, ma non è una commedia femminista». Interviene Brilli: «Il femminismo è stato molto importante, ma il mio personaggio va oltre e, semmai, pensa al ruolo maschile in modo collaborativo e non coercitivo».
Per Lina la commedia musicale è un ritorno a casa: «Garinei e Giovannini, molto diversi l’uno dall’altro, il primo farmacista e il secondo artista ma complementari, sono stati dei maestri per me che muovevo i primi passi in palcoscenico – racconta – il Sistina una palestra, dove all’inizio facevo il ghost rider, ma per me era comodissimo farlo, imparavo tantissimo». Non solo Garinei e Giovannini, anche la Compagnia dei Giovani di Giorgio De Lullo: «Mi dividevo tra Sistina ed Eliseo: da una parte la leggerezza, dall’altra l’impegno, le idee volavano in aria e le afferravo. Ricordo le lunghe passeggiate che facevo con Romolo (Valli) e le interminabili chiacchierate su Pirandello…». Osserva Brilli: «Essere diretta in teatro da un Premio Oscar non capita spesso: Lina è sta la prima regista donna a sintetizzare ironia e dramma nel grottesco. Una pioniera». E la pioniera,91enne, con che spirito affronta ora il viaggio a Los Angeles e poi la nuova fatica fisica della regia teatrale? «Il lavoro per me è sempre stato prima di tutto un gran divertimento. Non è legato all’età, anzi, trovo importante guardare sempre a futuro. Avrei tanti progetti che finora non ho potuto realizzare e che mi garantirebbero lavoro fino a 120-130 anni!».
Emilia Costantini, Corriere.it