Motta: «Per ”Semplice” mi sono ispirato a Calvino»

Motta: «Per ”Semplice” mi sono ispirato a Calvino»

La strada verso la semplicità è tortuosa. Ne è convinto Francesco Motta. Il più punk della leva cantautorale dei trentenni esce la prossima settimana con Semplice, terzo album che arriva dopo il debutto di La fine dei vent’anni e Vivere o morire, entrambi premio Tenco, rispettivamente come opera prima e miglior disco in assoluto. «La semplicità è una conquista e non può essere un punto di partenza. Lo diceva Calvino in Lezioni americane: la leggerezza non è una piuma che cade, ma l’uccellino che batte le ali per rimanere in volo».

Semplice è un lavoro nato nell’anno più complicato per chi, come Motta, la musica la vive su un palco, da quando, ragazzino, faceva il fonico. «Quest’estate, norme permettendo, torneremo a suonare. Il mio ultimo concerto è del 20 settembre 2019 e non sono mai stato fermo così a lungo. A 18 anni non c’erano locali dove suonare e a Pisa con i Criminal Jokers suonavamo per strada». Non è un disco sulla pandemia, dentro ci sono l’amore e l’avventura umana, il vissuto e le speranze, il rock acido e la ballad, i synth anni 80 e le orchestrazioni eleganti, ma l’esperienza di questo anno è stata fondamentale. «Ho provato una sensazione di vertigine allucinante e sono stato male, forse meno di altri, ma certamente più di tanti», racconta. Con la moglie Carolina Crescentini ha mollato Trastevere. Trasloco in campagna, 45 minuti da Roma in direzione lago di Bracciano. «Avevo bisogno di qualcosa che mi lasciasse dei bei ricordi. Da animale sociale ho sempre amato la città, mi ha aiutato a vedere una realtà estremizzata, a raccontare me stesso in un Paese malatissimo, ma in pandemia era diventata altro. Ho ritrovato il contatto con la natura. Mi sono pure messo a correre…». Gli mancava una prospettiva. «Seduto al pianoforte mi chiedevo sempre “e adesso, che succede?”. Mi ha risposto una dirigente della Sugar: “ce lo dovete dire voi artisti”. Sono tornato a immaginare il futuro e ho ritrovato l’approccio giusto. Citando i Colle der Fomento “non lo faccio ne pe’ loro ne pe’ l’oro. Lo faccio solamente perché sinnò me moro”. Faccio musica per me stesso, al di là delle economie che genera e delle classifiche, senza le pressioni e le attese che avevano condizionato il secondo album». Dopo Vivere o morire aveva partecipato a Sanremo 2019 con Dov’è l’Italia. «Una parentesi della carriera che mi ha fatto capire dove voglio stare. Ho capito che su quel palco devi fare anche spettacolo, e questo toglie qualcosa al mio modo di intendere la musica come artigianato».

Nei primi due album c’era una canzone dedicata al padre. Qui un paio di strofe… «A 18 anni pensavo che Lou Reed fosse più importante di mamma e papà. Adesso mi rendo conto che non è così, ma i Velvet Underground restano un riferimento e si sente in A te». C’è, invece, un’altra parte della famiglia, la sorella Alice che duetta sulle atmosfere degregoriane di Qualcosa di normale. «Ho fatto un sogno. Corro per arrivare in tempo a un appuntamento con De Gregori, cado in un burrone e nessuno mi vuole aiutare. Nel sogno riesco poi a incontrarlo: mi è sembrato un segno e nella realtà l’ho contattato. Lui ha sentito dei brani e su quello mi ha detto che avrei dovuto cantarla con una donna. E mia sorella è la voce femminile che preferisco».

Andrea Laffranchi, Corriere.it

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