Nanà è una donna forte, una che non si arrende facilmente ed è animata da un profondo senso di giustizia. È madre appassionata e moglie innamorata. Purtroppo, un brutto giorno scopre che la sua bambina, Sara, è malata di leucemia: un «mostro» si è annidato nella piccola, un veleno che proviene dall’acciaieria Ghisal, che si trova nella zona dove abita la famiglia e dove da vent’anni lavora il marito Sergio. Per Nanà, oltre al dolore straziante nel vedere sua figlia infilata nel tunnel della maledetta malattia, inizia una battaglia civile. Dopo l’«Amore strappato», Sabrina Ferilli si trova a incarnare un’altra madre coraggio nella fiction in tre puntate «Svegliati amore mio» di Simona Izzo e Ricky Tognazzi, in onda su Canale 5 dal 24 marzo.
Dove è ambientata la storia?
«Nell’Italia del Sud – risponde l’attrice – in un luogo imprecisato, ma che si può identificare in situazioni reali che incidono in maniera forte proprio su questa parte del nostro Paese».
Come per l’Amore strappato, dove si raccontava di un padre di famiglia ingiustamente accusato di aver abusato sessualmente di sua figlia, anche questa vicenda si ispira a fatti realmente accaduti?
«Sì, gli autori hanno incontrato una donna che vive in uno dei tanti luoghi dove si trova un’azienda siderurgica. Ma hanno raccolto anche molte altre testimonianze analoghe. E poi hanno costruito magistralmente questa storia, grazie all’intuito narrativo di Simona e alla sapienza registica di Ricky».
Lei ha incontrato questa donna?
«Non prima di affrontare il personaggio. Ho l’abitudine di avere un contatto diretto con le persone di cui racconto le vicende alla fine del mio lavoro, perché l’emozione nell’incontrarle finirebbe per condizionare la mia interpretazione. Ciò che conta è accendere un faro su un problema, che si spera arrivi poi, nella realtà, a una soluzione. E Svegliati amore mio si conclude con una nota di speranza, un finale positivo, che vuole essere un augurio».
Dopo aver portato in scena tante commedie, da un po’ di tempo si dedica a figure drammatiche. È un caso o una scelta voluta nel suo percorso artistico?
«La mia attenzione a temi politici, sociali c’è sempre stata. Poi è capitato che Mediaset mi proponesse questi progetti di impegno civile, scelte che si bilanciano con quelle che ho fatto in passato: non si possono fare solo commedie. In questo periodo, ho avvertito la necessità di esprimere, grazie al mio mestiere, un senso di partecipazione, di indignazione. E trovo meritevole che questo genere di forti denunce sociali venga realizzato, senza timori, da una tv privata».
Dopo l’Amore strappato, c’è stata una reazione da parte del tribunale dei minori?
«Quella fiction ha certamente contribuito, attraverso un linguaggio popolare, a far venire a galla altre vicende di quel tipo. Le istituzioni non devono far sentire sole le persone che subiscono questi danni, ma dare delle risposte precise. Mi auguro che, con questa nuova storia, si smuovano altre acque stagnanti riguardo alle industrie che creano inquinamento grave per la popolazione».
Stavolta, però, sorge un altro interrogativo: è più importante il lavoro o la salute?
«Non bisogna arrivare a questo dilemma. Questo tipo di fabbriche non devono essere chiuse, ma convertite, bonificate, per dare lavoro e al tempo stesso salvare la vita».
Lo stesso interrogativo si pone con il Covid: è più giusto lasciare aperte le attività commerciali, i cinema, i teatri, oppure è meglio chiudere per salvaguardare la salute?
«Il valore della vita umana deve essere al primo posto, ma cosa succede a chi non ha più da mangiare per sé e la propria famiglia? È il cane che si morde la coda».
Come sta vivendo la pandemia?
«Sono depressa, non riesco a essere molto ottimista, anche perché tra zone gialle, arancioni, rosse… non ce se capisce più niente. Si diceva Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi, e invece ci ritroviamo con i tuoi pure a Pasqua! I virologi parlano in continuazione e dicono tutti il contrario di tutto. Il Covid non perdona, lede i diritti umani più elementari».
Secondo lei, potrà davvero andare tutto bene?
«Mi torna in mente la storiella che raccontava mia nonna, di quella vecchietta che mentre ruzzolava giù per le scale dice: non vedo l’ora d’arriva’ fino in fondo pe’ vede’ che me so’ fatta».
Emilia Costantini, corriere.it