Fare il piastrellista non gli piaceva, allora è entrato in polizia ma non ha funzionato. Poi, la fulminazione: «Vidi in scena Peppe Barra e mi si scoperchiò la testa»
Non è il racconto di un ennesimo caso di molestie sessuali, ma quello del disfacimento di un sogno. «Un potentissimo produttore americano, di cui non rivelerò il nome neanche sotto tortura – dice Alessio Boni – venne a Roma, all’Accademia d’Arte drammatica dove stavo studiando da attore per farci fare dei provini. Non si trattava semplicemente del possibile ingaggio per un ruolo cinematografico, era molto di più: questo signore cercava un giovane attore, che conoscesse l’inglese ma mantenesse l’accento italiano, per creare una nuova star hollywoodiana». Una sorta di redivivo Rodolfo Valentino? «In un certo senso sì. Ebbene, fui scelto io e quindi venni convocato a Los Angeles. Ricordo che preparai grandi valigie con tutto l’occorrente e, quando partii, salutai i miei genitori e poi gli amici, i colleghi per un viaggio senza ritorno, ero infatti convinto che sarei rimasto molto a lungo negli Stati Uniti, era la mia grande occasione, la svolta tanto agognata… pensavo che la mia vita sarebbe definitivamente cambiata».
Le avances
Invece? «Mi sistemai in hotel e, per una settimana, aspettai la chiamata del produttore, che sapevo sposato con figli: ero sereno, mi guardavo intorno felice, ammirato, pieno di energie positive… E finalmente arriva il giorno fatidico dell’incontro nel suo studio: lui mi propina un bel discorso, mi fa credere che avrebbe fatto di me un astro del cinema, ma… c’era una contropartita… e il produttore prese il via con evidenti avances sessuali. Mi ritrassi, lo salutai e chiusi dietro di me, per sempre, quella porta. Quindi me ne tornai, con le pive nel sacco, a casa. Le molestie? Certo, esistono, ma basta saper dire di no. Io non mi sono mai piegato ai compromessi di nessun genere per lavorare con questo o con quel regista, figuriamoci se potevo accettare la proposta erotica di quel signore, ho troppo rispetto di me stesso, è una questione di dignità, che mi ha sempre accompagnato nella mia strada professionale». Di strada Alessio ne ha fatta parecchia, da quando ragazzo lavorava come piastrellista nell’azienda di famiglia a Villongo (Bergamo): «Non puoi scegliere dove nascere e nemmeno a quale ceto sociale appartenere. Io nasco in una famiglia proletaria, tutti piastrellisti, gente semplice ma sana che si è sempre voluta bene. Frequentavo ragioneria, corsi serali, ma non mi piacevano né il mestiere che facevo la mattina, né le materie che studiavo la sera. Volevo evadere: sin da ragazzetto, sulla mia Vespa andavo a bordo lago, quello d’Iseo, parlavo con lui, gli rivelavo i miei pensieri, i sogni, i desideri, sperando che mi rispondesse, che mi comunicasse qualche suggestione, qualche indicazione per il futuro».
Un Serpico mancato
E per evadere, entra nella Polizia di Stato: «Pensavo di diventare una specie di Serpico, ma ho ben presto capito che non faceva per me, castrava il mio anelito di libertà: troppe regole, rigide gerarchie… non mi sentivo a mio agio. Ho resistito per circa un anno e mezzo, poi sono scappato di nuovo e ho cominciato a fare tutti i lavori possibili anche all’estero, soprattutto in America, perché volevo imparare l’inglese, sentivo che era importante, anche se non pensavo ancora di intraprendere la carriera teatrale. Era un’utopia! Se avessi detto alla gente del mio paese che avrei voluto fare all’attore mi avrebbero riso in faccia». Tanti i mestieri che ha sperimentato: «Ho fatto anche il cameriere per mantenermi, con determinazione e umiltà e senza vergognarmi, non avevo paura di niente, mi sentivo libero, proprio perché venivo da una famiglia di proletari, non avevo piedistalli sotto di me, mio padre mi ripeteva spesso “ricordati che qualunque lavoro onesto è all’altezza dell’essere umano, devi vergognarti solo se fai il ladro”». Ha fatto anche l’animatore turistico: «E fu lì che cominciai a produrmi in qualche spettacolino — ricorda —. Ero totalmente avulso dal mondo artistico, ma il capo animatore del villaggio diceva che avevo delle doti e mi propose di intrattenere gli ospiti: certo non recitavo Amleto, ma robette banali, leggere, però mi piaceva tanto anche dedicarmi alle prove per la migliore riuscita delle mini-performance».
L’animatore
Ma come nasce la passione per il palcoscenico? «Fu un caso. Mi trovavo a Roma e un amico una sera mi porta al Teatro Sistina. Assisto alla “Gatta Cenerentola” con il mitico Peppe Barra, mi arriva una vibrazione, mi si scoperchia la testa, seguo istintivamente un richiamo interiore. Decido: voglio fare l’attore. Comincio a frequentare la scuola di Alessandro Fersen, comincio a fare recitazione, a educare la voce, la mimica, la gestualità…». E finalmente la svolta: «Mi preparo per l’esame di ammissione all’Accademia d’Arte drammatica Silvio d’Amico: supero l’esame, mi prendono. Un’iniezione di fiducia incredibile, il mio orgoglio alle stelle, ma sempre con i piedi per terra, perché sapevo cosa significasse guadagnarsi da vivere». Inizia l’avventura con grandi maestri: «Orazio Costa è stato un faro, il suo anche un insegnamento di vita. Amava dire a noi giovani “apprendisti”: la cosa più importante è essere prima di tutto persone. Quindi esercitarsi nei confronti della vita, saper controllare la propria natura, le reazioni umane, per diventare non uno di successo, ma una persona di valore».
Il grande salto
Il salto professionale arriva con Giorgio Strehler: «Mi scelse nel ruolo del giovane Cleante nell’ “Avaro” di Molière accanto a Paolo Villaggio. Non era solo un grande regista, ma un maestro istrionico, capace di rotolare sul palcoscenico per spiegarti come dovevi affrontare una determinata scena». E il terzo incontro fondamentale arriva nel cinema: «Con Marco Tullio Giordana ne “La meglio gioventù” mi vengono aperti canali incredibili: dovevo imparare a recitare in maniera diversa, perché nel cinema devi lavorare a sottrarre nella mimica, tutto il contrario del teatro». Il personaggio che piacerebbe a Boni interpretare? «Un transgender». Perché? «È una persona nata in un corpo che fa di tutto per cambiare profondamente, un corpo che non accetta e quindi per anni si sottopone a interventi: è una condizione distantissima da me, per questo mi attira». La vita privata? «Sono fidanzato da due anni con una giornalista, Nina, come la Caravella di Colombo. Lei vive a Milano, io a Roma, la distanza non è un problema, se il sentimento c’è. Però ci incontriamo a metà strada in un casale che ho in Toscana, in Val di Chiana, dove respiriamo in sintonia con la natura».
Emilia Costantini, Corriere della Sera