Micaela Ramazzotti descrive il suo personaggio, in «Maledetta Primavera» di Elisa Amoruso, alla Festa del Cinema, come «una nevrotica, svagata, stanca degli alti e bassi col marito (Giampaolo Morelli) traffichino nel lavoro, ma è innamorata di lui, urla sempre però urla anche a se stessa la sua infelicità, la sua frustrazione».
È un ruolo che ne ricorda altri suoi?
«Forse sì, al cinema mi porto dietro le mie paure, la mia passione per donne un po’matte. In questo film vediamo una famiglia sgangherata della periferia romana. Al centro c’è l’amicizia tra la figlia e una ragazzina mulatta, negli Anni 90».
E come ricorda, lei, la sua adolescenza in quegli stessi anni?
«Mi sentivo sola, avevo un’attitudine artistica che mi rendeva diversa, non ero capita, ero una ribelle ma per piacere agli altri, in realtà ero timida, riflessiva. Un po’ border line, tra la follia e la tristezza. Le fughe in motorino di nascosto a mia madre, che mi imponeva il coprifuoco…».
E le amiche la prendevano in giro?
«Sì, per i denti grandi, e perché ero piatta, mi chiamavano surf. Rinforzavo il reggiseno con i calzini. In una bancarella trovai un costume imbottito, le mie amiche maggiorate, un po’ crudeli, mi dicevano: perché il costume d’inverno?».
Diventare attrice è stata una rivincita?
«Sì, un riscatto interiore, anche se lo sono diventata per caso e non capivo se volevo fare questo mestiere. Sono partita da casa con un bagaglio vuoto, pochi film visti, pochi libri letti. Volevo dimostrare che ce l’avevo fatta. Ma sono rimasta un lupo solitario. Durante il lockdown mi sono rintanata a casa a vedere film su film. Sono un misantropo, mi devono spingere per andare sul red carpet».
Anche nel film le amiche di sua figlia sono spietate.
«Accade quando inventano che la madre della ragazza mulatta era una prostituta. Tra l’altro è il ruolo che sto interpretando nel film di Michele Placido su Caravaggio. Lena, che lui amava e ritrasse nei suoi quadri dove gli apostoli sono barboni e le Madonne prostitute. Vorrei girare un documentario su di loro, ne vedevo una vicino casa, non giovane, il viso dolce, le ho dato un nome immaginario, Nina, ci salutavamo di sottecchi. Pensavo alla sua vita, alla capacità di amare calpestata. Nel film ho cercato il suo candore, la vivacità dei suoi occhi».
Lo sguardo femminile della regista si sente?
«Quando si spengono le luci seguo solo il film e mi lascio andare, cerco di emozionarmi senza chiedermi se il regista sia maschio o femmina. Pietrangeli raccontava in modo incredibile le donne».
Una volta sognava il percorso di Silvana Mangano, da mondina a sofisticata.
«Oggi mi identifico più con l’espressività di Gena Rowlands. In La sera della prima, malgrado si tratti di un dramma, lei mi ricorda un pagliaccio, che è come mi sento io. Penso a una scena che ho girato di notte, scappavo a piedi lungo l’autostrada e il regista mi riprendeva correndo dietro di me, mentre la gente mi filmava col cellulare. Cosa sono, se non un pagliaccio? Mi piace prendermi poco sul serio, in fondo sono qui per intrattenere il pubblico».
Valerio Cappelli, Corriere.it