(di Tiziano Rapanà) Non voglio la luna e al bando tutti quelli che la promettono nelle campagne elettorali e nelle sere d’estate sui palchi. Perché la luna è una raffigurazione della retorica “del dopo” (dopo l’amore -“ti è piaciuto? È stato bello?”, dopo la chiusura del sipario con i soliti complimenti riverenti al capo comico in camerino, dopo il matrimonio – sia nella fine dello sposalizio, quando è il tempo dei confetti, sia nella fine delle cose). Sempre dopo si guarda la luna, a cose fatte. E prima, sospirando, davanti alla finestrella si guarda a lei come ad un approdo nell’emisfero della tonda speranza. Gli attori sono tutti felloni e guai a prenderli sul serio. Poi esistono i bari dell’ipocrisia, ovvero: io ti mento ed in verità ti dico il vero. Eccoli, ci sono, pochini… epperò ci bastano. Non ti promettono la luna e non fanno nemmeno paragoni con le stelle per fregare le belle signore: “Guardale le stelle in cielo, si vergognano di apparire. Le fai sfigurare, le fai sentire indegne della tua bellezza che illumina la terra”. E così a proseguire fino all’happy ending sognato mille volte, per studiare le posizioni più indecenti da mettere in pratica in quel battagliare sotto le lenzuola che è sempre un’accensione del pensiero di basso lignaggio. Sempre meglio delle rose e delle brutte lettere d’amore accluse, piene di citazioni insulse. Non li regalano mai i tulipani, perché quel fiore certifica il “per sempre” concreto di chi non scappa. E ti verrebbe da dirgli: “Non mortificate queste povere signore con frasi che non vi appartengono, lasciate gli scrittori nel loro triste pantheon da miracolati sopravvalutati, è andate bene a loro e andrà bene anche a voi”. Salvatore Marino è arcinemico dell’ipocrisia, la brutta signora con le gambe storte: è repellente, eppure molti si accompagnano a lei. Marino ama tirare dei portentosi calci negli stinchi del razzismo, con monologhi divertenti che snaturano e mortificano la mala sostanza di una perversione sociale. Gli immigrati patiscono e bisogna dirlo, le parole devono essere atte ad un’idea di mondo lontana anche dalle facili trovate culturali dell’antirazzismo di maniera. Non sono abbronzato, qui lo dico e qui lo neg(r)o è uno spettacolo che non si pone l’obiettivo assurdo di porre un’idea di mondo, qui i buoni e lì i cattivi. Marino riflette, con testi suoi e di Mario Scaletta, Andrea Zanacchi, Massimiliano Bruno, Pietro De Silva, Nicola Leonzio sui patemi di chi vive l’altro da noi con sofferenza. Al teatro Marconi in Roma, il 27 luglio, avrete la possibilità di ridere e capire qualcosa in più. La follia, tipica di chi crede di saperla più lunga, non la incontrerete.