Mi si nota di più se rosico o non rosico? Chi l’avrebbe mai detto che anche Nanni Moretti sarebbe diventato social — le parole sono importanti, ma purtroppo non c’è l’equivalente in italiano. Su Instagram — che ormai frequenta non con la compulsività di una Chiara Ferragni qualunque, ma dove regala ironia, vedi il battimano sulle note di Soldi di Mahmood — il regista ha pubblicato una sua immagine in primo piano: l’occhio a palla fissa gli interlocutori virtuali, i segni della vita non vengono nascosti da filtri (non è ancora Belén…), l’aria è abbastanza allucinata, e in effetti non ha tutti i torti. La didascalia a corredo dell’immagine spiega il suo stato d’animo: «Invecchiare di colpo. Succede. Soprattutto se un tuo film partecipa a un Festival. E non vince. E invece vince un altro film, in cui la protagonista rimane incinta di una Cadillac. Invecchi di colpo. Sicuro».».
L’interpretazione dei sogni diventa interpretazione del pensiero: il regista non sembra aver preso benissimo l’assenza del suo Tre piani dal palmarès del Festival Cannes, dove la giuria preseduta da Monsieur Le Gaffe, ovvero uno Spike Lee totalmente fuori bolla, ha premiato con la Palma d’oro Titane della francese Julia Ducournau, un film dove non si capisce se è più strano che una donna possa fare sesso con un’automobile o rimanere incinta dopo averlo fatto (senza precauzioni?). Certo la vittoria di Titane ha sorpreso molti, primi i critici che l’avevano stroncato, chi dicendo che era un «trash test», chi scrivendo che era un film «senza senso». E di senso ne aveva molto di più il Tre piani di Moretti, anche se fuori dai codici morettiani a cui eravamo abituati: questo è un Moretti crepuscolare, che non fa sconti a un’umanità che si rinchiude nelle proprie ossessioni e intransigenze, artefice e allo stesso tempo vittima dei propri paletti mentali, un’umanità che come i cani si morde la coda e finisce anche per trovarla buona. Poco aggiunge il finale al tempo di milonga, quasi a dare speranza, scampoli di spensieratezza che sono gocce nel mare della solitudine, perché il film lascia addosso un abito di cupezza e pessimismo che lo spettatore non può non indossare.
Abituati a un Nanni Moretti cinico e disincantato, ma che sapeva strappare sorrisi con la sua ironia sottile, la battuta fulminante, qui il regista tocca altre corde, dipinge un’umanità disperata, senza salvezza, senza vie d’uscita. «Il film — aveva spiegato Moretti — come il libro di Eshkol Nevo da cui è tratto, racconta le storie di tre famiglie che vivono nello stesso palazzo. Affronta temi universali come la colpa, le conseguenze delle nostre scelte, la giustizia, la responsabilità dell’essere genitori. I personaggi, fragili e spaventati, sono mossi da paure e ossessioni, e spesso finiscono per compiere azioni estreme… Si parla poco di cosa lasceremo ai nostri figli in termini etici e morali. Ogni gesto che noi compiamo anche nell’intimità delle nostre case ha conseguenze che si ripercuoteranno sulle generazioni future». E non basta una milonga a risolvere tutto.
Renato Franco, corriere.it