(STEFANIA ROSSINI, doctor L’Espresso) A 75 anni, cialis salta e canta ancora sul palco. Perché “la vita è solo invenzione”, ma anche per la sua amata città, “ormai estranea a se stessa”. Intervista al ‘mattatore’ che ha fatto, e continua a fare, la storia del teatro. Gigi Proietti: Roma mia, non ti riconosco più Anche senza essere suoi fan, anche se incuriositi soprattutto dalle quattromila persone che lo seguono incantate, lo anticipano nelle battute, si muovono al suo comando e lo applaudono per ogni guizzo, alla fine è impossibile non rimanere coinvolti nello straordinario rito teatrale messo in scena dal grande mattatore. E registrare ancora una volta l’intensità del rapporto tra Proietti e il suo pubblico, quello che lo accompagna da cinquant’anni senza scarti generazionali, che corre in massa ai suoi spettacoli e che anche in questi giorni ha affollato la cavea dell’Auditorium di Roma, fino a imporre repliche non programmate.
Il recital “Cavalli di battaglia”, summa di un’intera carriera, con le radici in quello spettacolo primigenio “A me gli occhi, please” che nel 1976 consacrò Proietti beniamino della città, conferma infatti il legame carnale tra l’artista e il suo popolo, che lui sollecita e accarezza evocando, con sketch e canzoni, una Roma che non c’è più e immaginandone, con poche speranze, una migliore. Fino a commuoversi e a rimanere stupito del suo stesso successo.
Migliaia di persone che l’applaudono e lei che li ringrazia quasi incredulo. Possibile che non sia ancora assuefatto al successo?
«Si vede, eh? Quando il pubblico è così tanto, o ti caccia nei primi cinque minuti o lo conquisti e te lo porti fino alla fine. Ma quello che mi commuove davvero è accorgermi che mi viene riconosciuto un po’ di lavoro fatto per la mia città».
Con i suoi spettacoli?
«Io questo so fare, mica mi posso occupare di fogne. Mi vanto però di aver aperto nel corso degli anni ben tre teatri, mentre molti venivano chiusi. La scommessa è stata quella di costruirmi un pubblico mio e poi accompagnarlo ad apprezzare anche altri generi, anche i più difficili. Basta farlo con leggerezza, senza atteggiamenti elitari. “Aiutiamo la cultura”, dicono tutti. “Cominciamola a fà”, dico io. Roma ce n’ha proprio bisogno».
Già, Roma. Lei che ne è il testimonial più celebre, ha idea di che cosa sia successo a questa città?
«Non è riuscita a capire che è diventata una metropoli, non ce la fa proprio. Basta andare un giorno in una qualsiasi grande città europea per accorgersene. Anche se non potrei vivere un sampietrino più in là, io Roma non la riconosco più».
Che cosa è cambiato davvero?
«È diventata brutta, scomposta, estranea a se stessa. Non è più un’unità, ma è una somma di almeno sette città con anime diverse. Periferie che non si conoscono l’una con l’altra. Una volta volevo fare una radio che si chiamasse “Radio raccordo anulare” al solo scopo di mettere in contatto le persone. Ogni tanto qualcuno si sveglia e ripete: “Bisogna portare la cultura in periferia”. Questa è una frase da querela, come quando sento che bisogna esportare la democrazia. La nostra? Me vie’ da ride».
Che effetto le ha fatto la notizia che questa città potrebbe essere in mano alla mafia?
«È stato un pugno nello stomaco, perché le piccole ruberie ci sono sempre state. Tu mi dai una cosa, io ti faccio un favore… Ma la criminalità organizzata in collusione con la politica è una novità terrificante».
Però i romani sembrano già averla assorbita. Si è chiesto perché non reagiscono?
«Forse perché hanno contribuito pure loro a questa situazione. Quando Toto, il mio personaggio, dice: “Ma lassa perde… ma chi te lo fa fà…”, racconta l’eterna mollezza dei romani. È questo che ci frega, perché la libertà, come diceva Gaber, è partecipazione».
E come si partecipa nella città che sta descrivendo? Ha qualche ricetta?
«Guardi, trent’anni fa, un assessore geniale, Renato Nicolini, inventò l’Estate romana, amalgamando nella città barocca interessi e culture diverse. Dopo di lui, tutto si è sciolto, si va di qua e di là senza un coordinamento. Però le invenzioni vanno adeguate ai tempi. Senza fare paragoni, posso parlare del mio Globe?»
Certo, è il bel teatro shakespeariano che ha ideato con Veltroni.
«Veramente l’idea è stata mia. Io gliel’ho proposta quando, nel 2003, cercava un modo per celebrare i cento anni di Villa Borghese. Lui, che è un grande comunicatore, l’ha presa al volo e abbiamo fatto questo teatro, dove ogni estate migliaia di cittadini vedono ottimi spettacoli a prezzi bassi grazie anche ai finanziamenti del Comune. Adesso però sta rischiando di brutto. Con l’aria che tira, dicono: “Vedremo in seguito se ci sono soldi”. Io ho aperto ugualmente la stagione. Speriamo che venga tanto pubblico e non ci si rimetta troppo».
Che opinione ha del sindaco Marino?
«Non ho un’opinione. L’ho votato per una sorta di autodisciplina, sulla quale però comincio ad avere qualche perplessità».
Di solito per quale partito vota?
«Per il Pci».
Ma non c’è più!
«Appunto».
È un modo teatrale per dirci che è rimasto comunista?
«Mio padre era iscritto, io non ho mai preso la tessera. Però, sì, ero comunista e nonostante tutte le critiche che si potevano fare, per esempio sul centralismo democratico, c’era del buono. Poi ho sperato nell’Ulivo che doveva mettere insieme le parti più virtuose dell’area socialista e di quella cattolica. Invece si sono contaminate a vicenda. Ora non c’è niente. Spero in un’illuminazione».
C’è Renzi
«Non lo conosco. Lo vedo in tv e, come tutti i bravi comunicatori ogni tanto mi sembra che mi convinca. Poi non so se è lui che molla me o io che mollo lui. Ci sono delle pause tra noi».
Ma questi politici vengono mai a vederla in teatro?
«Poco. L’altro giorno c’era Zingaretti, tempo fa vidi D’Alema. Veltroni viene sempre, ma lui non è uno spettatore, è un complice».
Lei mette il teatro al centro di ogni sua riflessione, ma nella sua vita artistica c’è anche il cinema. Perché non ne parla mai?
«Perché io al cinema non je so mai piaciuto. Ne ho sofferto un po’, ma ho dovuto accettarlo».
Ma come? Ha lavorato con registi come Altman e Tavernier. Il film di Steno “Febbre di Cavallo”, dove è un protagonista esilarante, è ormai un cult.
«L’hanno riscoperto quindici anni più tardi, ma quando uscì non incassò una lira. C’è poco da dire, non facevo cassetta. A lungo non l’ho nominato per scaramanzia, ma c’è un film che mi ha chiuso le porte del cinema, “ La mortadella” del povero Monicelli con Sophia Loren. Non lo ha visto nessuno».
Però è noto che Fellini le aveva offerto la parte di Casanova.
«Macché, me l’aveva fatto sperare, come faceva lui da serpente incantatore qual era. Poi dette la parte a Sutherland. Quando ebbe il problema di doppiarlo, mi fece cercare e io risposi: “Manco morto”. Allora mi telefonò lui “Giggiaccio non fare così… spara la cifra che vuoi”. Ne sparai una enorme e il povero Federico non seppe mai che l’avrei fatto anche gratis, perché è stata un’esperienza meravigliosa».
Insomma, lei piaceva ai grandi. Anche De Filippo si innamorò di lei.
«Non esageriamo, però è vero che il povero Eduardo venne a vedermi in “A me gli occhi, please” e, anche se il massimo delle sue risate furono un paio di ghigni come era suo solito, alla fine dello spettacolo prese le mie mani fra le sue e le alzò verso il pubblico in segno di approvazione. Mica come mia madre».
Che cosa fece sua madre?
«Mi riportò sulla terra con una sola parola. Venne in camerino e mentre tutti si affannavano a dirmi bravo, bravissimo, io le chiesi: “Ma’, ti è piaciuto?”. “Abbastanza”, rispose. E aveva ragione lei».
Nella sua autobiografia lei racconta quasi con orgoglio le condizioni modeste della sua famiglia di origine. Viene da chiederle se queste sono state un problema o uno stimolo al successo.
«Nessuna delle due cose. Mio padre, che faceva un mestiere umile e mi aveva portato fino all’università, voleva che mi laureassi. Ma cantando nei night, guadagnavo già più di lui. Poi il teatro mi ha preso e i miei hanno accettato il mio successo con una semplicità che mi fa ancora tenerezza».
Ora è lei ad avere due figlie nel mondo dello spettacolo. Ne è contento?
«Ho lasciato che scegliessero. I primi tempi che stavano in scena con me, ero molto imbarazzato, mi sentivo nudo. Forse perché mi vedevano nell’intimità del mio rapporto con il pubblico. Comunque penso di essere stato un buon padre».
È stato anche un buon marito?
«Sarebbe difficile dirlo perché non mi sono mai sposato. Il dato che conta è che sto in coppia da più di cinquant’anni, da quando una giovane svedese, che era poco più di una ragazzina e faceva la guida turistica, portava interi pullman di connazionali nel locale dove cantavo. Poi, in tutto questo tempo, abbiamo avuto le nostre burrasche. Ma ne siamo venuti fuori, anche perché, contrariamente a quanto si spettegola, io non sono certo un tombeur de femmes».
E non sarebbe ora di sposarsi?
«Ne stiamo parlando in questi giorni per la prima volta. Aspettavamo la legge sulle coppie di fatto, ma sembra che le vogliano fare solo per gli omosessuali. Dicono: voi avete già il matrimonio. Mi sa che mi tocca sposarmi, fosse solo perché Sagitta non ha ancora la cittadinanza italiana».
Proietti, in questa conversazione lei ha nominato diverse persone dello spettacolo che non ci sono più e per ognuno si è un po’ rammaricato, dandogli del “povero”, come si usa molto a Roma…
«Me sta a chiede’ se penso alla morte? Ci penso, però non sono molto originale perché, come tanti, ho paura del dolore, della morte cattiva».
Veramente, l’ho vista cantare e saltare per due ore in palcoscenico e volevo chiederle dove trova tanta energia a 75 anni.
«Le confesso che prima di quest’ultimo spettacolo mi stavo abbioccando, un po’ di tv, un po’ di spot. So bene quali sono i limiti dell’età, non posso progettare a lunghissimo termine. Però ho due figlie e, siccome credo che continueranno a fare questo mestiere, vorrei inventare qualcosa che loro possano portare avanti. Insomma, cerco un teatro».
C’è il Teatro Valle. Hanno cacciato gli occupanti un anno fa ed è ancora lì, abbandonato. Perché non prova a chiederlo?
«Ci provi lei e mi faccia sapere. Io ci vado di corsa»