L’attore è il protagonista di “Ambulance” il nuovo film di Michael Bay nelle sale da giovedì 23 con Universal. Che confessa: “La regia però non fa per me”
A salvare il cinema in sala scendono in campo registi dei blockbuster anni Novanta. A stretto giro ecco in sala Moonfall del catastrofista Roland Emmerich, ma soprattutto lo spettacolare Ambulance di Michael Bay (il 23 con Universal) per il quale il regista di The Rock e della saga Transformers – ha arruolato il divo Jake Gyllenhaal. La première parigina che ha dato il via al tour segna anche il ritorno in grande stile alle attività internazionali in presenza, dopo la lunga stagione delle interviste virtuali. C’è una grande gioia del ritrovarsi a parlare di cinema faccia a faccia da parte di tutti, Michael Bay scherza “ma lei è qui in carne ed ossa?”, lo stesso vale per gli attori. Ambulance è la storia di due fratellastri: uno ha servito il Paese come soldato, ma ora l’assicurazione non copre le spese per l’operazione sperimentale della moglie, l’altro ha ereditato l’attività del padre, famigerato rapinatore, e lo coinvolge in un colpo in banca a Los Angeles, che va male. I due fuggono in ambulanza, in ostaggio un poliziotto gravemente ferito e un’infermiera. Il film, girato durante la pandemia, è un giocattolone immersivo, esplosioni e sparatorie anche se il regista non rinuncia alla zampata critica sulla fine del sogno americano e comportamenti discutibili della polizia.
Michael Bay è un regista da grande incasso poco amato dai critici. Lei però è un suo fan.
“Credo ci sia un pregiudizio rispetto agli action movie, come se la qualità della recitazione in questo tipo di film contasse meno. Ho lavorato in film diversissimi, amo quelli di Bay perché ci trovo inaspettate profondità. Mi ha intrigato dai tempi di The Rock. Non tutti mi sono piaciuti, ma gli attori sono sempre grandiosi. Quando mi ha chiamato ho detto subito sì. Sul set ho capito che è un vero autore: segue un’esplosione con la stessa cura con cui segue un attore. Mi ricorda il grande direttore della fotografia Roger Deakins, con cui ho fatto Jarhead e Prisoners, nel senso che usa la macchina da presa come un rabdomante, coglie il momento. In una scena in cui avrei dovuto esserci al centro io, ha invece virato sul mio collega Yahya Abdul-Mateen II per assorbire la sua energia. Se fossi stato meno strutturato come attore, sarebbe stato devastante. È vero che urla sul set, perché ci mette tutta l’energia e ti fa tornare un bimbo che gioca a guardie e ladri con auto e elicotteri. C’è un pregiudizio nei suoi confronti, ma non sottovalutatelo”.
Il suo personaggio è un altro forte narcisista. Come quelli che ha fatto in Spider-Man e in Okja.
“Sì. Ma ogni progetto ha una spiegazione tutta sua. Per Okja è successo che sono amico di Bong Joon-ho ho da una vita, lui mi mostra il telefonino con le foto del nuovo film, vedo questa creatura rosa e m’innamoro: trovami un ruolo. E poi, lo ammetto, mi piacciono i ruoli teatrali, i personaggi ingombranti”.
Il film è stato girato durante la pandemia. Che impatto ha avuto il lockdown sulla sua vita?
“Quando mi fanno domande sulla mia vita io parlo sempre della carriera, il lavoro per me è tutto, sono grato di poterlo fare. Ma questa pausa mi ha dato la possibilità di vedere il mondo, vederlo cambiare drasticamente. La nebbia delle cose inutili è svanita e ho visto le persone che amo davvero e che mi amano davvero. Che erano lì e saranno lì quando succederà qualcosa, che è un cerchio piccolissimo. Ho una devozione nuova per la mia famiglia e per i miei amici, mentre prima la priorità era la carriera. Anche la famiglia, ovviamente, anche se in una famiglia come la mia le cose sono profondamente intrecciate”.
Questa storia mette al centro il rapporto tra fratelli. Lei è molto legato a sua sorella Maggie.
“Sì, un rapporto fortissimo con mia sorella, e come tutti i fratelli, fatto di amore e liti. Ma tra le cose più belle e importanti di quest’anno c’è stato accompagnare Maggie alla Mostra di Venezia e vederla presentare lì The lost daughter. Ovviamente è un’attrice meravigliosa, ma dopo averla per un anno e mezzo mettere tutta se stessa, visione, cuore, mente in questo progetto legato alla sua Elena Ferrante è stato straordinario, nel mezzo della pandemia ha portato la sua famiglia in Grecia e Danimarca e provare a girare questo film. L’ho vista cambiare, evolversi come artista. Sostenerla come fratello è stata la cosa più importante che abbia potuto fare. Sono fiero della sua candidatura agli Oscar”.
Com’è stato tornare alla Mostra di Venezia?
“Emozionante. Ho vissuto alcune delle esperienze più straordinarie della mia carriera al festival. Con Brokeback Mountain abbiamo inaugurato Venezia ed è stato l’inizio di un viaggio incredibile di un film che mi è rimasto nel cuore per tanti motivi, per tanti ricordi. Parlando di amore, penso che il calore e la cura che gli italiani, in particolare a Venezia, portano al cinema non hanno eguali. Mia sorella ha fatto un grande lavoro adattando il libro di Elena Ferrante, che considero un vostro tesoro nazionale”.
Qualche tentazione da regista ce l’ha anche lei?
“Sono cresciuto guardando le cose da dietro la telecamera, fin da ragazzino sapevo che avrei fatto questo mestiere, ho sempre osservato gli altri fare film, ma non è una cosa per me. Ricordo che sul set in Messico di Brokeback Mountain il direttore della fotografia Rodrigo Prieto ha dovuto recitare in una scena. Non l’ho mai visto così a disagio. Ecco, con la macchina da presa in mano io sembro proprio così”.
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