In sala il documentario «Gimme Danger»
Nel 1973 la prima band punk della storia era allo sbando. I suoi membri facevano quasi tutti uso di droghe, i discografici li avevano abbandonati, ai concerti non veniva più nessuno. Eppure, sciogliendosi, The Stooges si trasformavano in una fra le band più influenti della storia del rock. Addirittura, la più grande, come sostiene Jim Jarmusch (regista di film come «Dead Man» con Johnny Depp o «Danubailò» con il nostro Benigni), che ha diretto «Gimme Danger», documentario nei cinema italiani il 21 e 22 febbraio.
Il documentario prende il titolo da una canzone di «Raw Power», terzo album della band ed è ovviamente incentrato su Jim Osterberg, alias Iggy Pop, leggendario frontman del gruppo destinato ad avere una grande carriera da solista. Pioniere dello stage diving, appassionato di vari stili musicali, abituato a cantare a torso nudo perché affascinato dai «peplum movies», Iggy rievoca gli anni degli Stooges in una roulotte analoga a quella in cui è cresciuto e della quale va orgoglioso, perché, in uno spazio ristretto «ho potuto conoscere davvero i miei genitori».
La band nasce nel 1967 ad Ann Arbor, nel Michigan, la prima formazione comprende Iggy Pop (voce), i fratelli Ron e Scott Asheton (rispettivamente chitarra e batteria) e Dave Alexander (basso). A loro si aggiunge tre anni dopo il chitarrista James Williamson. Sono considerati precursori del punk, anche se Iggy rifiuta ogni incasellamento: «Non mi interessa essere cool, alternativo, punk o rock, voglio solo essere, semmai eravamo comunisti pur essendo apolitici, visto che mettevamo tutto in comune, casa, soldi, cibo. Il vero comunismo!»
Allo scioglimento prendono strade diverse, Iggy collabora con David Bowie e diventa sempre più famoso, Alexander muore nel 1975, gli Asheton suonano in piccoli gruppi, Williamson, che è ingegnere, si butta nella nascente industria dei computer. «Gimme Danger», che alterna filmati d’epoca, interviste, e ricostruzioni animate, è un documentario affascinante e dolceamaro. Jarmusch definisce il suo film «selvaggio, disordinato, emotivo, divertente, primitivo e sofisticato allo stesso tempo». Proprio come gli Stooges
di Stefano Priarone, La Stampa