La fine di Gomorra: nessuno si può salvare

La fine di Gomorra: nessuno si può salvare

Dopo cinque stagioni, cinquantotto puntate, un film, infiniti colpi di scena, personaggi incredibili, storie irripetibili, strade percorse e altre abbandonate, dopo Napoli, Londra, l’est Europa, dopo aver trasformato il mondo intero in una spiraglio di periferia, Gomorra – la serie è finita. E la televisione italiana è cambiata per sempre.

ATTENZIONE, SPOILER

Oggi per scrivere, e immaginare e dirigere, una serie tv non bisogna più seguire un ricettario o un libretto delle istruzioni; bisogna, prima di tutto, osare. E chi osa, spesso, riesce. Sky, con Romanzo criminale prima e con Gomorra dopo, ha segnato un nuovo sentiero per l’Italia. Con le ultime due puntate, andate in onda venerdì scorso e ora disponibili con il resto della serie su NOW, Gomorra è stata in grado di chiudere un cerchio e di mantenere la promessa fatta più di sette anni fa: nessuno, tra i criminali, si salva; non c’è eroismo, non c’è straordinarietà, non ci sono esempi da imitare.

È morto Ciro L’Immortale (Marco D’Amore) ed è morto Genny Savastano (Salvatore Esposito). I figli, nel tentativo di uccidere i propri padri, hanno finito per massacrarsi a vicenda, e tutta la gloria sognata e tutto il potere raccolto non sono serviti a niente. Ciro e Genny sono morti insieme, fianco a fianco, vicino al mare. Azzurra (Ivana Lotito) e il piccolo Pietro sono salvi; forse avranno una seconda possibilità. 

Anche nel momento del trionfo, i protagonisti di Gomorra hanno perso, e come in una tragedia shakespeariana hanno visto il mondo crollare e mischiarsi alla polvere e al sangue. Ciro e Genny erano due fratelli, due amici; si sono amati e si sono odiati. Sono diventati nemici, e per vendicarsi hanno distrutto ogni cosa. Alleati e compagni. Napoli, per tutto il tempo, è rimasta sullo sfondo: una madre silenziosa e sofferente che rimane sempre, che sopravvive ai suoi figli, e che non fa niente per salvarli. Perché sa. Sa che è una storia che si ripete. Sa che è così e basta. 

Anche Gomorra, dalla prima all’ultima stagione, ha ripercorso gli stessi passi e ha ripetuto le stesse dinamiche. Per tutti – tutti, nessuno escluso – è arrivato lo stesso destino. È un dramma, un crime; è un racconto che sfrutta elementi reali, come quelli raccontati nel libro di Roberto Saviano (edito da Mondadori), per creare – e per mostrare – qualcos’altro. Non è, banalmente, il tentativo di rendere i mostri e le brutture di una società intrattenimento. Dov’è la polizia, dov’è la giustizia: in Gomorra, nella serie, non ci sono. Perché questo non è il mondo reale. 

Gomorra non esalta, non ingigantisce, non migliora: fotografa. Con la luce che sfuma, e con le ombre che si allungano. È un ritratto distorto, schiacciato, assurdo. Un ritratto che coglie il male nella sua essenza, e lo peggiora. Male al quadrato. Male al cubo. Male elevato all’ennesima potenza. Ma alla fine, ecco, che cosa rimane? L’essere umano. Perché questa è comunque una storia di uomini e di donne, e quelli che commettono sono errori – errori terribili, per carità: irripetibili; ma errori. 

Ciro e Genny volevano una famiglia, e mentre cercavano di difenderla l’hanno persa per sempre. Volevano conquistare il mondo, e per riuscirci hanno tradito e massacrato. La loro non è una vittoria. È una sconfitta. Non cercavano la speranza, non volevano essere migliori dei loro genitori. Non davvero. Hanno fatto le stesse cose e preso le stesse decisioni. Ora sono morti, e Gomorra è finita. 

Produttivamente questo rimane un grandissimo traguardo: quando è iniziata, quando alla regia c’era Stefano SollimaGomorra era un esperimento. Un azzardo. Nessuno, a parte i produttori, ci credeva. Adesso è una realtà e viene vista in tutto il mondo, e non sono pochi quelli che – come serie – l’hanno celebrata. Nel corso delle puntate, sono stati commessi degli errori: ci sono stati degli alti e bassi, come in tutte le cose. Ma il punto non è essere perfetti. Tutto quello che serve, a volte, è essere i primi a superare una porta, a cambiare le regole e a indicare una nuova strada. 

Per Gomorra sono stati scelti attori giovani, spesso esordienti; è stata data la possibilità a scrittori e a registi di fare il loro lavoro liberamente. Con Gomorra è stata creata una nuova estetica: neon, luci, il grigio del cemento, la periferia come realtà, come posto immobile nel tempo e nello spazio, e non come misto di luoghi comuni e assurdità. (Grazie, Paolo Carnera). A Napoli e in Campania sono stati creati posti di lavoro e professionalità. 

Sono state definite due linee: il mondo di fuori, e il mondo della tv; i criminali come personaggi negativi ma completi, e il male come cosa complessa, lontana dalle semplificazioni necessarie della serialità. C’è una distinzione palese. Questa è la fine, e va bene così. Ora, forse, ci sarà spazio per altre storie e altre serie, e in parte sarà proprio merito di Gomorra: di quello che, prima degli altri, nonostante gli altri, è riuscita a ottenere. La storia di Ciro e di Genny si è conclusa. Resta, però, una grande serie tv.

VanityFair.it

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