Simone Cristicchi, 42 anni: non è un po’ presto per una biografia?
«Ero diffidente pure io, non mi piace l’attitudine al santino, oltre al fatto che per lo più la biografia è dedicata a un artista deceduto… Però mi piace l’idea di qualcosa che ti ricorda che hai vissuto, in questa società iper-tecnologica che consuma tutto in un attimo. Tutti dovrebbero avere un libro che racconta la propria vita, un tascabile con le proprie esperienze».
Cantautore, anche autore e attore di tanti monologhi, in «Abbi cura di me» (scritto con Massimo Orlandi, Edizioni San Paolo, esce il 25 ottobre) racconta che da adolescente la sua passione era il disegno e riuscì a sottoporre i suoi lavori a Jacovitti.
«Era il mio idolo, ma il primo incontro fu traumatico, mi disse che non aveva bisogno di una fotocopiatrice umana. Fu burbero e schietto, avevo 16 anni e mi ferì ma aveva ragione: i maestri devono anche essere bruschi».
Da Jacovitti tornò più avanti con uno stile finalmente personale e fu accolto. Ma nel frattempo la musica stava vincendo sul disegno. L’occasione fu un concerto a scuola: lei, chitarrista, sul palco al posto del cantante.
«Quando fai il chitarrista sei protetto, stai un passo indietro. La responsabilità è tutta sulle spalle del frontman. Fu anche un modo per vincere la mia timidezza di fronte a tutta la scuola».
Un timido che sta sul palco è come un camaleonte esibizionista, non è una contraddizione?
«Vivevo il combattimento interiore tra nascondersi ed espandersi. Ho avuto bisogno di dire a tutti che esistevo, ma sempre spinto dall’idea di condividere qualcosa con gli altri, non per narcisismo».
Da dove è arrivata la fascinazione per il racconto?
«Mio nonno Rinaldo era un grandissimo narratore, aveva una capacità unica di raccontare storie. Ma lo spartiacque arrivò con uno spettacolo di Gigi Proietti a 13 anni, uscii dal teatro completamente scombussolato: avevo assistito a qualcosa di straordinario».
Il primo requisito dell’ispirazione fu una tessera di abbonamento all’Atac?
«Non avevo la patente, l’unico modo per spostarsi a Roma erano i mezzi pubblici, ma quello che per molti è un dramma per me era una risorsa perché l’autobus è un punto di osservazione particolare per chi cerca storie; da una posizione defilata si osserva meglio e si immagina di più. Ho affinato il gusto di cercare il particolare, come un rigattiere dell’anima. Da piccolo mi chiamavano Cento Lire perché avevo sempre la testa china, come se cercassi qualcosa… guardavo i dettagli».
La sua vita da «cespuglio pensatore» è cambiata all’improvviso grazie a «Vorrei cantare come Biagio», inteso Antonacci. Era un modo per esorcizzare la sua frustrazione artistica?
«Era 10 anni che facevo tentativi con la musica, stavo vivendo il mio momento più triste e drammatico, ero in fondo alla fossa. Quella che doveva essere una gag teatrale ebbe un risvolto paradossale: diventavo famoso con un tormentone, io che sono sempre stato contro i tormentoni e i fabbricanti di canzoni. Fu una gioia e un dramma al tempo stesso, provai anche un po’ di delusione per chi non aveva capito il brano per quello che era, una canzone quasi triste, malinconica con un retrogusto alla Charlie Chaplin che parlava dell’impotenza dei giovani che non hanno visibilità… Prima suonavo nei pub davanti a 15 persone, ora mi fermavano per strada».
Con «Ti regalerò una rosa» vinse nel 2007 a Sanremo. Cosa fu per lei?
«Il Festival fu una rivincita, dimostrò che non ero solo un cantante da un’estate e via. Quando ho vinto sono svenuto per davvero, Baudo mi aspettava, Michelle Hunziker aveva un sorriso a oltranza, ci fu un buco televisivo durato il tempo per rimettermi in piedi. Mi davano 30 a 1, fu una vittoria totalmente inaspettata. E fu un bel segnale vincere grazie al televoto».
Arrivarono i concerti a ripetizione: «era diventato un impiegato della musica»?
«Il successo ti porta a essere bulimico, la musica va veloce, se non pubblichi un album ogni due anni rimani indietro. Ma per me il teatro è diventato un altro modo per esprimersi: il pubblico teatrale è più solido di quello musicale, se lo conquisti poi difficilmente ti abbandona. È il mio habitat perfetto».
Renato Franco, Corriere.it