Netflix, torna “Dark”

Netflix, torna “Dark”

«Sono fermamente convinto che ogni forma di narrativa rifletta le paure profonde del suo tempo»: parole di Baran bo Odar, ideatore e regista della serie tv tedesca Dark assieme all’ideatrice e sceneggiatrice Jantje Friese. Parole sante, in effetti. Mentre gli spettatori tremano di fronte alla visione terrorizzante della miniserie Chernobyl, si interrogano sull’Apocalisse di Good Omens e la fine del mondo in The Umbrella Academy («ho preferito i fumetti alla serie» dichiara bo Odar, «ma parlo davvero per gusto personale») anche il racconto delle famiglie malate nel villaggio immaginario di Winden esplora il tema della distruzione del mondo. «L’emergenza climatica crea grande incertezza sul futuro. Ci sentiamo minacciati. Al cuore di Dark c’è una centrale nucleare e, a quanto pare, non siamo i soli ad aver incanalato un timore collettivo. Va bene così: se non si crea consapevolezza si non cambia atteggiamento; e noi abbiamo bisogno di cambiare atteggiamento prima che il pianeta muoia».

Il tempo è un cerchio piatto

Nella prima stagione di True Detective, la serie tv Hbo di Nic Pizzolatto, il detective (interpretato da Matthew McConaughey) Rust Cohle ripeteva il mantra di matrice nietzschiana «Il tempo è un cerchio piatto». Dark, che torna il 21 giugno – dopo due anni – su Netflix con la sua seconda stagione, si ispira ugualmente alle teorie del filosofo. «Quando guardi a lungo nell’abisso, l’abisso guarda dentro di te» è una delle citazioni chiave della nuova tranche di episodi e non meraviglia considerato che tutto lo show è basato sull’Eterno Ritorno, ossia sull’idea che il tempo sia ciclico. Al cuore della serie tv sta infatti un buco nero capace di trasportare chi vi passi attraverso trentatré anni indietro nel passato a seconda del momento nel quale vi si accede: nella prima stagione le linee temporali erano infatti tre cioè il 1953, il 1986 e il 2019. E ora, con le nuove puntate, si aggiunge la possibilità di andare avanti fino al 2052. «Quello che ci interessa», specifica Jantje Friese, «è il comportamento umano. Perché le persone fanno quello che fanno, e soprattutto come fanno a diventare quel che diventano? Come mai un bambino che mostra certe inclinazioni finisce per trasformarsi in un adulto drasticamente differente? La risposta è il tempo. Il tempo ci tramuta». Tutt’altro che questioni da poco per una «semplice» serie tv il cui maggiore pregio e, forse, difetto è somigliare a una dissertazione nichilista.

Uno show «espressionista» (ma pop)

«Siamo probabilmente più ispirati dalla cultura pop che dall’espressionismo tedesco», spiega Baran bo Odar, sebbene gli appassionati di cinema rintracceranno facilmente la radice del movimento tedesco non tanto nella messa in scena quanto nel racconto del tempo, materia emotiva e trasformante che si dipinge sul volto del cast corale di una delle serie tv più complesse del panorama televisivo contemporaneo. Più complesse, sì, perché più genuinamente metafisiche, psicologiche e filosofiche. Aggiunge Friese: «Ci poniamo grandi domande, e quelle domande sono la base di Dark. Chi siamo? Perché esistiamo? Da dove nasce l’universo? Cos’è la realtà e cos’è la fantasia? Einstein, Nietzsche e Schopenhauer figurano appieno tra le ispirazioni dello show». E – ribadiamolo – è questo che rende la serie di bo Odar e Friese davvero unica: non c’è il timore di risultare alienanti, o troppo seri (se c’è qualcosa che scarseggia negli episodi sono i sorrisi degli attori e dunque dei personaggi, per dirne una) e difficili. Se si guarda alle altre produzioni – altrettanto ambiziose – in grado di fare lo stesso bisogna scomodare The OA, Westworld, probabilmente Fringe, lo stesso Lost nei suoi momenti migliori. Dark, però, nasce in Germania e supera gli Stati Uniti a destra quanto a carico di quesiti esistenziali e persino eleganza in una narrazione che da un lato si rifà alla cultura «alta» dei grandi pensatori o ai riferimenti mitologici (si pensi al filo di Arianna e al Minotauro) e dall’altro privilegia «sì, anche le serie tv stesse di cui siamo grandi consumatori, i fumetti o gli universi narrativi di Stephen King che abbiamo divorato quando eravamo più giovani», come racconta bo Odar.

Fuori dalla caverna

Dark è uno show «profondo». L’aggettivo va messo tra virgolette perché, in realtà, si riferisce al luogo che funziona da architrave e quasi da metafora di tutta la vicenda: le caverne della cittadina fittizia di Winden. È qui che i membri delle numerose famiglie della serie, che spesso echeggia un altro caposaldo televisivo come Twin Peaks, si perdono nel tempo – sempre di trentatré in trentatré anni – generando paradossi dalle conseguenze disastrose e riverberi inconcepibili. Quando si parla di complessità in riferimento al lavoro di Friese e bo Odar, infatti, non si scherza. Le demarcazioni tra decenni sono sottilissime, e molto spesso lasciate alla comprensione dello spettatore cui viene richiesto di essere estremamente vigile rispetto a dettagli quali abbigliamento, differenze di uno stesso luogo che a volte diviene irriconoscibile, somiglianza tra attori di età differenti che interpretano lo stesso personaggio in momenti differenti: «In realtà siamo guidati dalla convinzione che l’intelligenza del pubblico sia a volte sottovalutata. Siamo costantemente attenti a preservare la comprensibilità della nostra serie. Vogliamo sfidare lo spettatore, ma non confonderlo».

La via d’uscita dal labirinto

Guardare Dark vuol dire fare un esercizio continuo di decrittazione che può rivelarsi persino sfiancante di tanto in tanto, sebbene la ricompensa sia – poi – grande e la percezione del puzzle – via via più completo – a tratti meravigliosa; sorprendente. «A livello di scrittura, Dark è una lotta quotidiana» ammette Friese. «Eravamo un pochino soverchiati dal successo della prima stagione, ma abbiamo scoperto che la soluzione era… be’, il tempo. Ancora una volta. Tutto quel che dovevamo fare era amare i nostri personaggi, amare le famiglie di Winden e osservare le loro scelte, lasciarci guidare da quello che avrebbero o non avrebbero fatto. È come se io e Baran fossimo il loro primo pubblico». In effetti, la serie è un labirinto: si rischia di restare con gli occhi puntati per terra alla ricerca di un filo rosso che conduca a una via d’uscita. «In questo momento stiamo lavorando alla terza stagione» continua Friese, «e stavolta il punto è emergere dal labirinto». Aggiunge bo Odar: «Una cosa è sicura. La prima stagione era complicata, la seconda è più complicata, e più oscura. La terza e ultima, be’… Non voglio fare spoiler, ma sarà la più complicata di tutte».

Marina Pierri, Corriere.it

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