“Guardate che alla fine, in termini numerici sono più gli americani che vanno verso il Messico che viceversa”, spiega al FQMagazine l’attore 37enne, originario di Guadalajara, arrivato in Italia al 12esimo Biografilm Festival di Bologna per raccontare la felice storia del suo “Ambulante”, decine di proiezioni di documentari tra centinaia di paeselli e città messicane
“L’odio creato da Donald Trump verso i migranti è puro fascismo”. Gael Garcia Bernal lo spiega in tono pacato. Lui che ha creato il festival “Ambulante”, documentari a go-go in giro per i “pueblos” del Messico, che ha interpretato uno degli episodi di Babel, avanti indietro sul confine messicano-statunitense, e poi ancora Desierto (2015) proprio su un gruppo di fuggitivi messicani verso la California.
“Guardate che alla fine, in termini numerici sono più gli americani che vanno verso il Messico che viceversa”, spiega al FQMagazine l’attore 37enne, originario di Guadalajara, arrivato in Italia al 12esimo Biografilm Festival di Bologna per raccontare la felice storia del suo “Ambulante”, decine di proiezioni di documentari tra centinaia di paeselli e città messicane.
“In molti dicono che ho avuto un bel coraggio ad interpretare Desierto (regia di Jonas Cuaron ndr) proprio durante l’ascesa di questo tizio alle presidenziali che non voglio nemmeno nominare. Attenzione però questo film non è contro di lui, ma illustra un fenomeno planetario e naturale. Se non ci fossero le migrazioni di individui non saremmo qui: noi e i nostri figli”. Sono invece le urla sgangherate del magnate statunitense a essere innaturali e inventate: “La sua narrativa dell’odio è una mitologia irreale, caduca, totalitaria, fascista. Si fa presto a dare la colpa agli altri, musulmani, cinesi, messicani che siano, di tutto il male degli Stati Uniti. Ogni paese ha i suoi ‘nemici’ migranti. L’Italia, l’Europa, perfino il Messico stesso. I vicini centroamericani vengono trattati in modo terribile”.
Il perenne ragazzino che ha ispirato Almodovar per La mala education, ma che è anche stato Che Guevara ne I diari della motocicletta, poi il finto persecutore del comunistissimo poeta Neruda nell’omonimo film di Pablo Larraìn – in anteprima proprio al Biografilm dopo la Quinzaine di Cannes 2016 – ha sempre mostrato qualcosa di infinitamente e intelligentemente politico nel suo cinema: che fosse interpretato, prodotto, o anche solo distribuito e mostrato, come per il suo festival “Ambulante”, non ha mai fatto differenza.
“È vero, il cinema continua ad avere una funzione politica trasversale: sullo stato delle cose attuali, sul recupero della memoria, sulla costruzione del nostro futuro. Per fare un esempio torniamo alla questione della migrazione. Perché il cinema di per sé contiene elementi propri della migrazione: attraversa le frontiere, è uno scambio di punti di vista, ha un impatto sulle persone che dialogano grazie al film per creare un mondo migliore. Il cinema è legato intrinsecamente nel bene e nel male alla politica”. Con una precisazione molto postmoderna: “L’importante è non anteporre un’etichetta o un obiettivo politico ad un film. Meglio entrare in una sala vederlo semplicemente come film senza sapere se sarà “politico” o meno. Etichettarlo in precedenza può essere un’autodefinizione sbagliata. Che si tratti di un film di Spielberg, o di un film concettuale, se poi l’obiettivo del cineasta o della produzione non si realizza sarà un fallimento grosso”.
Bernal non ha comunque mai disdegnato ruoli più leggeri, sia sul coté tragico, ma soprattutto su quello comico. L’ultimo ruolo interpretato nella fortunata serie tv Mozart in The Jungle è lì a dimostrarlo: “È un personaggio che mi diverte molto quello di Rodrigo. Però dovete sapere che il cinema, come la tv, mi piace più vederli che farli. Il cinema è un procedimento lungo e confuso che mi snerva. E poi non mi piace per nulla stare davanti all’obiettivo della macchina da presa, tutti quegli istanti persi in attesa di girare, preferisco giocare a calcio. E poi non so se posso dirlo, ma secondo me la cinecamera altera sempre la realtà, la manipola, cambia i punti di vista. Anche il documentario alla fine è finzione”.
Davide Turrini, FQ Magazine