Metti una giornata a Bari con Gianrico Carofiglio, scrittore sì, ma «non intellettuale»

Metti una giornata a Bari con Gianrico Carofiglio, scrittore sì, ma «non intellettuale»

Insieme ad Amazon Audible, che dell’ex magistrato ha in catalogo quasi tutti i romanzi, siamo stati nella città di Carofiglio. Dove, tra reading, orecchiette e giri di Bari Vecchia, ne abbiamo scoperto l’ironia e l’agenda. «Guerrieri? In autunno, una nuova storia»

Il corso Vittorio Emanuele, a Bari, è uno stradone trafficato, sul fondo del quale si staglia la sagoma del teatro Margherita. In origine, è stato pensato per separare la parte moderna della città, quella più nuova, dal fascino decadente della Bari Vecchia: borgo di pescatori e mercanti, dove le botteghe di quartiere, ancora, non sono state fagocitate dalla grande distribuzione. La città vecchia è un affastellarsi di balconi fioriti ed edicole votive, minuscoli templi erti sui muri dei palazzi e protetti dagli archi in pietra e dai panni stesi.

Tra le viuzze del borgo, sono mutande e pantaloni a portare colore. «Nonna diceva che i panni devono respirare», spiega Lucia, una donnina esile il cui entusiasmo è racchiuso, tutto, nelle lunghe unghie color fucsia.

Lucia è la guida che, insieme ad Audible, ha organizzato un tour nella Bari di Gianrico Carofiglio, il cui ultimo libro, La Versione di Fenoglio, è diventato un audiolibro Amazon. Sole, nei giorni pugliesi, ce n’è poco. Ma Lucia, sotto il cielo plumbeo, cammina spedita, un colpo all’informazione ed uno alla tradizione. Alla sua destra, sfilano la Basilica di San Nicola e la Cattedrale di San Sabino, costruite, entrambe, con quella pietra calcare di Altamura che a Bari si dice abbia «il male oscuro». «Se si scheggia, cade», spiega la piccola signora, restituendo l’anima di una città in cui le viuzze portano il nomignolo di chi un tempo le ha abitate e il vicino è «un sistema mentale».

A Bari Vecchia, si sta per strada. Lo spazio morto che ciascuno ha al di fuori della propria porta è un luogo condiviso, dove le nonne, la domenica, tirano la pasta e, con un gioco, velocissimo, di coltello e pollice, la plasmano in orecchiette e cavatelli. Un chilo costa 5 euro, e Carofiglio, che a Bari pur ci è nato e cresciuto, assorbendo dalla città un’ironia inaspettata per un (ex) magistrato, ne compra per sé. Grano arso: orecchiette nere, che nel colore atipico dovrebbero racchiudere la promessa di una più facile digeribilità. Per strada, si respira odore di sugo e carne arrosto. Le sgagliozze, «scaglie» di polenta fritta, cuociono agli angoli delle piazze e sotto gli archi, di fronte ai bar, se ne stanno appollaiati stormi di signori anziani, che nemmeno il soffio freddo della tramontana riesce a spostare.

Si ritrova nel quadro di Bari che ha dipinto la signora Lucia?
«Non proprio. C’è del folklore di troppo, ma, fatta la tara, tolto quel po’ di affezione e colore eccessivi, Bari è questo».

Che rapporto ha con la città?
«Siamo in rapporti cordiali, io e Bari. Woody Allen a chi gli chiese se fosse credente rispose: “Credere in Dio? Diciamo che lo stimo”. Ecco, io Bari la stimo».

Un modo educato per declinare la domanda.
«No. Solo, ho avuto un rapporto molto altalenante con la mia città. Da ragazzo, volevo andarmene. Un po’, perché l’età con sé portava quel tipo di inquietudine. Un po’, perché pensavo avesse ragione Mario Sansone, l’italianista allievo di Benedetto Croce, che definì Bari una città “senza ironia né malinconia”».

Cosa accadde poi?
«Bari compì una drammatica rotazione su se stessa. Fu il cambiamento. Ricordo ancora il momento esatto in cui avvenne. Andavo in ufficio, era mattina, e con il motorino mi fermai ad un semaforo lungo. Accanto, avevo il teatro Margherita, chiuso per lavori. Mi voltai a guardarlo e, d’improvviso, nella mia mente si formò una storia. Una storia che avrei voluto raccontare, una storia che percepii come buona. Fu allora, fermo a quel semaforo, che per la prima volta pensai che Bari potesse essere una città romanzesca».

Ne La Versione di Fenoglio, però, Bari compare poco. Che differenza c’è tra la città del maresciallo e quella di Guerrieri?
«Credo che la città, in qualche modo, rifletta l’animo dei miei protagonisti. La Bari di Fenoglio è una Bari più risalente, diversa da quella di Guerrieri che, invece, è calato nella modernità. Guerrieri ascolta il rock laddove Fenoglio vi preferisce la lirica. Guerrieri è un cialtrone, Fenoglio un uomo serio».

Eppure, qualcosa in comune ce l’hanno.
«Sono, entrambi, personaggi etici e questa loro eticità condivisa si ha nella percezione di un codice e nella consapevolezza che, presto o tardi, lo si violerà».

Quanto di sé c’è nei suoi personaggi?
«Non saprei dirlo con certezza. La nascita dei miei personaggi e la loro evoluzione è preterintenzionale. Ricordo come nacque Pietro Fenoglio. Era il 2014, e dal Comando Centrale dei Carabinieri chiesero a me e ad altri tre autori di scrivere un romanzo che ne celebrasse il centenario. Rifiutati. Non era cosa per me. Addirittura, mi sembrava si sfiorasse la propaganda».

Poi, però, accettò.
«Einaudi si disse interessata. Mi ci misi, allora, ma non riuscivo a trovare un nome per questo personaggio. Il metodo consueto, codificato da Simenon, sembrava non sortire alcun effetto. L’elenco telefonico, cioè, non riusciva a darmi alcuno spunto. Cercavo qualcosa di maneggevole, se così si può dire di un cognome, qualcosa che non fosse piatto. Mi avvicinai alla libreria e, per caso, presi Una questione privata di Beppe Fenoglio».

E il partigiano divenne il suo protagonista.
«Ero divertito dalla natura ossimorica di quel nome. Beppe Fenoglio, partigiano e scrittore, è legato ad un immaginario cui mai verrebbe legato un maresciallo dei carabinieri».

Com’è nata La Versione di Fenoglio?
«Non come il romanzo che si è letto e ascoltato. Il contratto che stipulai con Einaudi recava, come titolo provvisorio, Manuale di Investigazione. Doveva essere un compendio del buon detective che avesse un’attitudine metaforica. Ma non avevo voglia di scriverlo. La data di consegna si avvicinava pericolosamente. Cominciai ad aguzzare l’ingegno. Ero al mare – perché questo renda l’idea di quanto alacremente stessi lavorando – e mi comparve Fenoglio».

Cioè?
«Lo vidi. Mi disse che poteva essere lui il mio personaggio, dare una ragione del metodo investigativo conferendogli anche una dimensione esistenziale. Chiamai l’editore e mi feci aumentare l’anticipo».

Fenoglio, rispetto a Guerrieri, ha tutto un altro passo. Dove sta il suo futuro letterario?
«Ho per le mani una buona storia su Guerrieri, o almeno così credo. Spero possa uscire per l’autunno. Poi, ho appena finito di leggere 5 casi per l’avvocato Guerrieri. Un disastro. Non si vede, ma ho messo l’apparecchio ai denti. Avevo la lingua dilaniata, leggere era penoso. Eppure Amazon non mi ha aumentato lo stipendio: non ha apprezzato l’abnegazione, la mia dedizione alla causa».

Ma c’è qualcosa che, con la scrittura, non riesce a dire?
«La scrittura narrativa, per quanto elastica sia, non può dire tutto. Mi piacerebbe scrivere canzoni, vincere Sanremo, ma la musica, forse, in un’altra vita».

Perché ha scelto di leggere da sé l’audiolibro de La Versione di Fenoglio?
«Perché mi è stato chiesto. Lo so, è una risposta pessima. Se mi avessero chiesto di ballare, non avrei accettato».

Dunque, perché?
«La lettura di un autore è piena di imperfezioni. Se la si ascolta con l’orecchio di un insegnante di dizione, impiegato all’Accademia di Arte Drammatica, si inorridisce. Ma la voce di un autore, rispetto a quella di un attore, ha una qualifica che, a mio giudizio, le permette di superare qualunque criticità: l’onniscienza. Un autore sa di cosa sta leggendo».

E un attore no?
«Non mi fraintenda, credo che un attore possa fare grandi lavori. Personalmente, però, sono rimasto scottato. Un attore, famoso, che era stato invitato a leggere un mio brano drammatico, decise per chissà quale motivo che fosse un testo comico. Credo che solo lui non percepì l’imbarazzo, mio e del pubblico. Fu tremendo. Poi, leggere mi piace: la paga è buona. Su una cosa sono stato chiaro: non avrei fatto scene di nudo».

Audiolibro o libro cartaceo?
«Il libro di carta è un oggetto fisico della cui bellezza non si finirà mai di stupirsi, ma l’audiolibro è parte della storia. È Omero, e tutta una tradizione letteraria che nella voce ha la sua ragion d’essere. Ed è mio padre, una magia che mi porto dietro dall’infanzia».

Si spieghi.
«Gli audiolibri, tempo fa, provò a farli Mondadori. L’impresa non andò a buon fine, ma mio padre li comprò tutti. Adoravo, da bambino, quegli audiolibri. Ero pazzamente felice di poter stare nella stanza vietata, il salotto buono con l’impianto stereo, ad ascoltare quelle storie. Amplificava un piacere per la lettura che già avevo».

Dunque, qualcosa di autobiografico c’è.
«C’è anche nei miei personaggi, ma la pagina più autobiografica che io abbia mai scritto non riguarda Fenoglio né Guerrieri. È la storia di un cane, il mio cane. Da ragazzino, mi ero fissato che ne volevo uno. Mia mamma disse che avrei pure potuto buttarmi dall’ottavo piano: non se ne sarebbe fatto nulla. Cominciai a comprare manuali che lasciavo sparsi per casa. Cose tipo L’alano in appartamento – La convivenza in casa».

Carofiglio prende tra le mani Né qui né altrove. Una notte a Bari, anch’esso disponibile su Audible, e apre il libro sulla storia di Randi, un bastardo dal pelo fulvo che, in una giornata di bigiate, leccò la mano di un quattordicenne spavaldo. Lo scelse e, ticchettando su unghie che sempre sarebbero rimaste lunghe, lo seguì fino a casa. Quel cane, al ginnasiale, costò 4 mila lire. Ma i soldi furono ripagati da un amore che durò 16 anni. Randi morì qualche giorno prima di Natale e, a leggere il ricordo di quella Vigilia solitaria per le strade di una Bari deserta, con gli occhi lucidi di lacrime e il cuore gonfio di tristezza, Carofiglio ha un tentennamento. La voce si incrina e lo scrittore serra le labbra, come a mandar giù un boccone amaro.

L’emozione, negli audiolibri, è qualcosa di tangibile.
«Credo che gli audiolibri rispettino la ragione del successo dei libri cartacei di cui sono la trasposizione: accordano uno stesso spazio all’azione creativa del lettore, capace di colmare con la propria fantasia i vuoti che uno scrittore, consapevolmente, dissemina qua e là».

Tipo?
«Fenoglio non ha una descrizione fisica, Guerrieri nemmeno, ma sono certo che i miei lettori si siano formati, ciascuno, un’idea di come questi personaggi abbiano da essere. La lettura, come l’ascolto, consente di praticare l’esercizio della fantasia in un’era stracolma di immagini».

Una massima da intellettuale. Si sente tale, parte del cosiddetto «establishment»?
«Al solo sentire la parola intellettuale, metto mano al calcio della pistola. Lo ha detto Goebbels, in un altro tempo e per altre ragioni. Ma, generalmente, quella di intellettuale è una qualifica che ci si autoattribuisce. E, allora, quanti libri bisogna aver letto per potersi dire intellettuali? Quali studi bisogna aver compiuto? Se una categoria è tale per autodefinizione, allora è establishment. Ma io non mi sento intellettuale. A me piace sporcarmi le mani. Mi è sempre piaciuto. Da ragazzino, facevo a botte per strada».

Claudia Casiraghi, Vanity Fair

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