L’allenatore del Bologna rassicura sulle sue condizioni di salute e a 78 giorni dal trapianto di midollo dà un’ottima notizia: la malattia è sotto controllo. Guai, però, a chiamarlo eroe: «Ho affrontato questa cosa per come sono io, ma nessuno deve vergognarsi di essere malato o di piangere»
Combatte contro la leucemia dalla scorsa estate, Sinisa Mihajlovic, e la sua partita più difficile non ha nessuna intenzione di perderla. «Sta andando tutto bene, non sto più prendendo il cortisone e questo è importante», ha raccontato a Verissimo l’allenatore del Bologna nella puntata di sabato 18 gennaio. «Sono passati 78 giorni dal trapianto di midollo osseo e i primi 100 giorni sono i più critici. Poi dopo è tutto in discesa, bisogna avere pazienza ancora per una ventina di giorni ma superarli sarebbe già un bel traguardo.
Sono molto contento, non ci sono state complicazioni gravi e va benissimo così». Una bella notizia, non solo per i tifosi rossoblu, ma per tutti quelli che da sempre apprezzano l’uomo e l’ex calciatore, che ha raccontato anche di aver ripreso ad allenarsi leggermente per tornare in forze.
I momenti difficili, come sempre è in certi casi, non sono mancati. «Ho fatto tredici chemioterapie in cinque giorni, ma già dopo il terzo avevano annientato tutto. Il primo ciclo è stato il più pesante, mi sono venuti anche degli attacchi di panico che non avevo mai avuto perché ero chiuso in una stanza con l’aria filtrata: non potevo uscire e stavo impazzendo. Volevo spaccare la finestra con una sedia, poi mia moglie e alcuni infermieri mi hanno fermato, mi hanno fatto una puntura e mi sono calmato».
Lui non ha perso coraggio. «Stavo male ma dovevo dare forza alla mia famiglia perché se mi avessero visto abbattuto sarebbe stato peggio. Cercavo di essere sempre positivo e sorridente, facevo finta di niente per non farli preoccupare. Questa è stata una delle cose più difficili perché non sempre ero al massimo della forma». Guai, però a parlargli di eroismo. «Sono un uomo normale con pregi e difetti. Ho solo affrontato questa cosa per come sono io, ma ognuno la deve affrontare come vuole e può. Nessuno deve vergognarsi di essere malato o di piangere. L’importante è non avere rimpianti e non perdere mai la voglia di vivere e di combattere».
L’unico rimpianto è quello di non essere stato accanto al padre nei suoi ultimi mesi di vita e nemmeno quando è morto, dieci anni fa. «Spero che mi abbia capito. Quando hai i genitori noti tutti i difetti, io per esempio non sopportavo che facesse rumore quando mangiava, invece, quando poi non ci sono più ti mancano anche le cose che ti davano fastidio. Bisogna goderseli al massimo». E al suo fianco, oggi, oltre alla moglie e alle figlie, c’è anche la madre, cuoca provetta. «Mi ha preparato dei piatti serbi che sono molto saporiti e non li ho sentiti amari come quasi tutto il resto dei cibi. Grazie a lei ho recuperato un po’ di chili». Non solo dalla famiglia però è arrivato (e continua ad arrivare) supporto, ma anche dal mondo del calcio: «Ho sentito tantissima vicinanza da gente famosa e da gente normale, anche con gli striscioni negli stadi. Prima ero uno che divideva, con questo problema ho unito tutti. Hanno guardato l’uomo più che l’allenatore e questo era l’importante».
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