Agnelli racconta il debutto da solista: “Non volevo diventare il pupazzetto del giudice cattivo”

Agnelli racconta il debutto da solista: “Non volevo diventare il pupazzetto del giudice cattivo”

Debuttare, come solista, a 52 anni. Manuel Agnelli molla «X Factor», mette in pausa il progetto Afterhours e per la prima volta piazza il suo nome sui manifesti di un tour che a primavera (debutto il 30 marzo ad Assisi) lo vedrà nei teatri. «Dopo tre anni di selfie con i bambini sentivo l’esigenza di fare solo ed esclusivamente musica, farla senza una progettualità pesante intorno, suonare senza binari rigidi, con leggerezza e intimità». Non che ce l’abbia con i piccoli fan. Scherza e fa una voce da film horror. «Non potrò più succhiare il loro sangue…». Torna il tono normale: «Da un lato è imbarazzante per uno nato punk: vuol dire che sono diventato innocuo. Dall’altro i bambini sono le persone più libere, evidentemente hanno visto qualcosa, un’energia… Potrò tornare a fare la spesa al supermercato e non vedrò più girare mie foto brutte. Immaginatevi David Bowie che era sempre fighissimo nell’era dei selfie…».

«An evening with Manuel Agnelli» lo vedrà sul palco con Rodrigo D’Erasmo, violinista (e non solo) degli Afterhours. Ci sarà la musica, brani della band rivisitati e cover, ci saranno letture e racconti «ma non sarà il classico concerto acustico, voce e chitarra». E chissà che non arrivi anche il disco solista: «La band non si è sciolta e tornerà, ma in questo periodo sto componendo cose diverse, partendo dal pianoforte che avevo abbandonato dopo gli studi classici da ragazzino». Manuel fa un passo indietro in un momento in cui molti della nuova generazione indie corrono a riempire i palazzetti senza una base solida di repertorio o con produzioni povere che sono solo un modo per fare cassa. Non rinnega i tre anni da giudice televisivo. «Ho portato una visione diversa da quella terribile del resto del tavolo e del pubblico, che giudicano solo in base alla logica dei numeri. Ho fatto il produttore pensando al dopo e non alla gara: mi inorgoglisce pensare che tutti i miei concorrenti oggi lavorino nella musica. Però ho smesso perché volevo evitare di diventare il pupazzetto del giudice cattivo, il cartonato di me stesso».

Si è tenuto lontano dal mondo social. «Non ho profili personali. E nemmeno WhatsApp. Ci sono profili fake che a volte dicono le cose meglio di come le avrei dette. Io preferisco poter spegnere il telefono e sentimi libero. Anche di non seguire le critiche». Come quella di essersi lasciato stritolare dal meccanismo televisivo, fra lacrime e liti. «Non recitavo. Rivendico di essere stato sempre me stesso. Ho imparato che posso dare contenuti e profondità anche senza fare la faccia scura». I talent fanno bene alla carriera? «La visibilità ci ha portato solo un 10 per cento di pubblico nuovo, giovanissimi e milf assetate di sangue, ma sopratutto ha risvegliato quello vecchio che si era impigrito e ha detto “quello è mio e me lo vado a riprendere”. Per il resto non abbiamo approfittato della tv quanto altri: abbiamo rifiutato decine di spot e perso decine di migliaia di euro».

Andrea Laffranchi, Corriere.it

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