Il debutto della nuova serie targata Netflix è solo l’ultimo esempio del prepotente ritorno del mito della Frontiera nel nostro immaginario…
Più di un secolo è passato da quando il bandito di The Great Train Robbery sparava contro la macchina da presa, inaugurando, di fatto, il successo planetario di un intero genere. È una storia vecchia quanto il cinema, quella del western. Una storia che ne ricalca i passi scrivendo un linguaggio e un immaginario che, dal film di Edwin S. Porter in poi, si fa vero e proprio universo di senso. Un mondo iconico e fuori dal tempo, dato più di una volta per spacciato, ma che – come quella pistolettata – torna, ciclicamente, a sorprendere e spiazzare. Difficilmente, però, qualcuno avrebbe potuto immaginare che a resuscitare (per l’ennesima volta) un genere tanto legato al grande schermo sarebbe stata la serialità televisiva. Mentre il cinema tentava di arginare un declino vecchio oramai di decenni, cercando di rispondere con una contaminazioni tra generi e immaginari (Cowboys & Aliens, Bone Tomahawk, La Torre Nera), è stato proprio il piccolo schermo infatti a riscoprire le autentiche peculiarità del western, a rispolverarne l’ampio respiro e il grandioso senso dell’epica. In occasione dell’uscita di Godless, nuova variante Netflix sul tema, gettiamo allora uno sguardo su una vera e propria rinascita destinata a riscrivere il destino di un genere, di un immaginario e (in fin dei conti) del cinema stesso.
Rivoluzione seriale
Intendiamoci: prima del nuovo millennio il western non era certo digiuno di serialità televisiva. Serie come Bonanza, La casa nella prateria o Kung Fu per quanto mediocri e, viste oggi, simpaticamente obsolete, avevano riempito i palinsesti televisivi sin dalla nascita del mezzo. É però con la rivoluzione a cavallo del secolo, quella rivoluzione che puzzava del sigaro di Tony Soprano e delle degenerazioni politico-criminali di The Wire, che l’immaginario western riscritto e aggiornato per l’occasione, acquisiva una nuova dignità, ritagliandosi un ruolo da protagonista all’interno di una nuova, prolifica e inventiva stagione televisiva. Era il 2004 quando David Milch, sregolato e geniale showrunner di serie come NYPD e Luck, decideva infatti di mettere mano al mito e alla (sanguinosa) nascita del sogno americano creando, attraverso l’irruenza della sua scrittura anticonformista, l’epopea western di Deadwood. Brutale, cruda, sboccata, la serie di HBO, in sole tre stagioni (con un pilot diretto nientemeno che dal veterano Walter Hill), riscriveva le regole del piccolo schermo e, insieme, regalava ai posteri un mito redivivo e più agguerrito che mai. Le gesta semi storiche dello sceriffo Bullock (il Timothy Olyphant del futuro Justified), di Calamity Jane (Robin Weigert), di un Keith Carradine in versione Bill Wild Hicock e del luciferino Swearengen (uno Ian McShane già iconico, ben prima di American Gods), diventavano così il primo esempio di come il western, con i suoi tempi, la sua epica e la sua violenza, potesse funzionare anche al di fuori di un cinema ormai saturo di quell’immaginario, in un regno di possibilità (la tv, preferibilmente quella via cavo) ancora vergine. Dopo la prematura chiusura di Deadwood sarà Hell on Wheels – epopea creata da Tony e Joe Gayton, e ambientata in un altro accampamento fuori dalla legge, quello itinerante dei costruttori della ferrovia – a prendere in mano le redini del filone e a confermare, per cinque anni, una formula ormai vincente, traghettando la nuova maturità di questi western anche nel secondo decennio del nuovo millennio.
Il futuro di un genere
Bisognerà però attendere il 2016 e un’altra, brutale rivoluzione, prima che il lavoro di Milch e compagni dimostri di aver fatto finalmente proseliti. Nella fantascientifica Westworld, creata da Jonathan Nolan e Lisa Joy e ispirata al film di culto Il mondo dei robot di Michael Crichton (1973), sono le macchine, questa volta, a ribellarsi, troppo strette nei ruoli, negli abiti e nell’immaginario del vecchio West.
Il parco a tema del folle e geniale Dottor Ford di Anthony Hopkins e della sua nemesi nerovestita Ed Harris (da menzionare almeno il suo Appaloosa, a proposito di rinascite del western), si fa così l’emblema stesso del genere e, insieme, una dichiarazione di intenti tutt’altro che rassicurante. Niente più luoghi comuni o situazioni collaudate, pare ammonire il nuovo mondo creato (ancora una volta) da HBO, i clienti/spettatori in cerca di emozioni forti, risse da saloon e cacce a tesori nascosti devono stare in guardia: non è con la solita storia da cowboy che avranno a che fare. D’altronde, per il mito della Frontiera, è un clima generale di distruzione e di rigenerazione quello che si respira sul piccolo schermo. Un punto di non ritorno con cui tutte le narrazioni a venire – dall’epopea texana di The Son, al primo esperimento di Netflix, Frontiera – dovranno, nel bene e nel male, confrontarsi. Ed è proprio in quest’ottica che pare prendere piede il progetto di Godless. Se è vero infatti che non è solo con la fantascienza che si possono guardare le brutture del presente, lo scandalo Weinstein è l’occasione ideale perché il genere si colori di inedite tinte femminili (e femministe), collocandosi nel solco di quella tendenza le cui ultime epigoni si possono rintracciare in serie come The Handmaid’s Tale, e il cui sentire travalica gli sche(r)mi, le epoche e i generi. Fino a ricordarci, se ancora ce ne fosse bisogno, che il western non è morto. Ha solo cambiato casa.
Mattia Caruso, Everyeye.it